Sono 893 mila le madri sole con i figli minori in una situazione economica critica. A dirlo sono i dati Istat. In Italia nel biennio 2015-2016, si stima che in media i nuclei familiari monogenitore in cui è presente almeno un figlio minore siano pari a 1 milione 34 mila. Un fenomeno in crescita. Più della metà delle madri sole non può sostenere una spesa prevista di 800 euro e neanche una settimana di vacanza. Quasi una su cinque è in ritardo nel pagamento delle bollette, affitto e mutuo. Altrettante non possono riscaldare adeguatamente l’abitazione. Le madri sole lavorano fuori casa più tempo rispetto alle madri in coppia, si stima 47 minuti in più al giorno e dedicano meno tempo al lavoro familiare, 37 minuti in meno. I livelli di soddisfazione sono sempre inferiori a quelli delle madri in coppia per tutte le dimensioni della vita e in particolare per le condizioni economiche. Cambia di poco la condizione dei padri soli, hanno meno figli e più grandi di età. Matrigna, patrigni, figliastra, multiparentale e chi più ne ha ne aggiunta. L’Italia ormai fa i conti con la famiglia monogenitoriale o allargata e lo slalom degli affetti. Oggi sono 2,7 milioni gli italiani che vivono in famiglie cosiddette ricostituite, e con le nuove compagne “le matrigne” , che da sempre non hanno mai goduto di buona fama: d’altronde è la donna che prende il posto della madre, e con loro bisogna fare i conti. In Italia, dice l’Istat sono 893 mila le famiglie al secondo giro di prova con nuovi partner al fianco. Venticinque anni fa, nel 1993, non arrivavano a 600 mila. La famiglia tradizionale ha lasciato il posto a nuove famiglie, ormai, la famiglia tradizionale non è più un modello prevalente – secondo l’Istat- neanche nel Mezzogiorno d’Italia. Monogenitori per un periodo di transizione, poi nella maggior parte dei casi si diventa bifamiglie con bigenitori ed i figli possono trovarsi fino a quattro figure genitoriali. Un fenomeno sociologico che ci porta a genitori costretti a negoziare più di un tempo, figli che devono dividersi tra otto nonni per scoprire che quello con cui sono affini è quello acquisito. Si apre così la strada a quelle famiglie definite dal sociologo Pierpaolo Donati, “famiglie liquide”. In Italia, la famiglia normocostituita: da mamma, papà e due figli in media, è ormai una minoranza, non si tocca neppure la soglia del quaranta percento totale. L’altro sessanta percento ha forme più svariate: si può crescere con una mamma single, o con papà single, in una coppia dove uno dei genitori naturali si è sostituito ad un nuovo partner. O in una casa con due genitori dello stesso sesso: due mamme o due papà. Sono ancora però le donne a reggere le sorti della famiglia, anche se subentrano a matrimoni troppi brevi, a relazioni finite male e si trovano ad educare bambini piccoli, che a volte a malapena parlano. E fanno persino fatica a trovare loro un nome appropriato alla situazione. Forse un tempo di mamma ce n’era una sola, ma oggi non è più così. La partita si gioca tra la mamma biologica e la nuova compagna del papà, e se le due si alleano, diventano esempio di crescita specie nell’adolescenza. Il problema però sussiste nel nuovo lessico familiare che è parte centrale del cambiamento. Mancano le parole, i figli stessi non sanno come chiamare o definire i nuovi compagni dei genitori e questo secondo i più recenti studi anglosassoni, sarebbe l’origine della fragilità di questi nuclei ricomposti. La famiglia con lo stesso cognome non c’è più. Non sono chiari i diritti e i doveri dei genitori e delle nuove figure che subentrano. Se un ragazzo ha un incidente, il compagno della madre, che magari lo ha cresciuto, non può dare neanche il consenso per un’operazione d’urgenza. Eppure le nuove compagne si ritrovano a vivere delle vere e proprie vie crucis, a Roma e Milano sono nati i “club della matrigne”: donne che si confrontano e si scambiano consigli, perché credevano che un uomo divorziato fosse un uomo libero ed invece si sono ritrovate a figli che remano contro, ex mogli pronte a calunniare, il compagno pronto a fingersi morto pur di affrontare la situazione. Perché di certo le famiglie si ricostituiscono ma i legami non si possono spezzare. E’ dura la vita delle “matrigne” di oggi: quasi tutte soffrono della sindrome “da prima moglie” sulla supremazia della donna che è venuta prima, devono sopportare le foto dell’ex nuova che le suocere hanno ancora in salone e si sognano di partecipare al saggio di danza della scuola, ma quel posto spetta alla vera mamma. Ma è dura anche la vita dei figli che si trovano un’estranea che gli fa da mamma e la crisi dei modelli tradizionali non è indolore, la liquefazione come viene definita in sociologia, fa emergere comportamenti a rischio, specie nell’adolescenza. Quando il nuovo compagno non pretende di avere un ruolo paterno o materno ma solo di un adulto di riferimento, le cose vanno meglio. Di certo i bambini d’oggi fanno i conti con la sessualità dei genitori, ciò che prima non avveniva. Per generazioni venivano visti come assessuati, oggi, invece, i bambini si trovano a cercare nuove spiegazioni. La famiglia borghese di un noto film di Ettore Scola non esiste più, neanche quella da pubblicità, cambiano gli affetti, cambiano i termini, c’è chi dice meglio così, più crescono le figure di riferimento e più affetto avranno i figli, c’è chi invece è terrorizzato da tanto cambiamento, di certo è che la transazione familiare è in atto e con sé porta tutte le problematiche del caso.
(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)
Coinquilino, roomate o compagno di stanza sono ormai termini in disuso: oggi la parola d’ordine è co-housing. Si tratta di qualcosa di più della semplice condivisione di un appartamento: spesso si creano degli spazi comuni, all’interno dei condomini, dove poter non solo trascorrere del tempo insieme, ma persino realizzare attività che siano di aiuto per gli altri. Nelle grandi città italiane, ad esempio, ci sono i primi condomini dove, in apposite aree comuni, qualcuno si occupa di tenere i figli propri e quelli degli altri, mentre altri si occupano di andare a fare la spesa per tutti. Il co-housing, che sta cambiando, costringendo gli architetti a rivedere le concezioni di living tradizionali, arriva come antidoto della solitudine degli anziani, creando uno spazio di coabitazione. Chiacchierano, coltivano i propri hobby, raccontano aneddoti della propria gioventù, e soprattutto si “fanno compagnia”, ascoltati dai più giovani e da quelli che ormai considerano dei veri e propri familiari nonostante non ci sia alcun vincolo di parentela. Una convivenza che abbatte i costi, ma anche la solitudine ed i rischi legati alla terza età, come le truffe e gli incidenti domestici. Non solo. Gli anziani sono datati, se richiesto dai familiari, anche di gps per poter essere rintracciati, se fuori casa, in caso di perdita di senso dell’orientamento. L’esperienza del co-housing, parola inglese che ha sostituito in Italia il vecchio concetto di “convivenza” tra i coinquilini, nasce in Danimarca negli anni ’60. Oggi è diffuso in tutto il mondo: dalla Svezia, al Giappone, passando per la Francia e gli Stati Uniti. Anche in Italia ormai ha preso piede, affermandosi soprattutto nella terza età. Non una casa di riposo o di cura, ma un appartamento dove gli anziani convivono, in alcune co-housing, come ad Acerra in provincia di Napoli, vi sono degli operatori socio-sanitari, una cuoca ed uno psicologa che li aiutano nella coabitazione. In questi casi, nessuno indossa un camice e si rivolgono agli ospiti chiamandoli “nonni”, in modo da farli stare a proprio agio in un ambiente nuovo. La coabitazione tra nonni lascia alle spalle la solitudine, così come i problemi legati alla gestione economica di un appartamento, che molti, ormai non possono permettersi. In Italia la popolazione anziana è pari a 2 milioni e 300 mila persone sopra i 75 anni che vivono da sole in case di proprietà con quattro o più stanze. Il progressivo aumento della popolazione anziana comporta la necessità di individuare sistemi di sostegno all’invecchiamento attivo. Così si fa largo il co-housing per nonni, in alcune realtà convivono anziani e non. Gli anziani soli con case grandi ospitano i più giovani: studenti fuori sede, o semplicemente loro coetanei in difficoltà economica, ospitandoli a modici prezzi. In cambio però devono collaborare nei lavori domestici, nel pagamento delle utenze e farsi compagnia a vicenda. Una realtà che si sta diffondendo piano piano con le paure e le diffidenze del caso anche in Italia incontrando vantaggi e svantaggi. I vantaggi sono molteplici. Non solo possibilità per gli anziani di vivere in un ambiente più stimolante di una casa di riposo, ma anche un’innovazione dei servizi di cura, grazie all’aiuto reciproco “co-care” che permette di risolvere con facilità alcuni problemi assistenziali non gravi. Il co-hounsing è anche la soluzione più economica: anche per aggregare la domanda di servizi. D’altra parte la difficoltà del vivere comune, soprattutto per gli anziani, sta nel dover condividere i propri spazi, ma è solo questione di abitudine. Che il co-housing funzioni in Europa e anche in alcune zone d’Italia e che sia una valida alternativa è fuori dubbio, ma sarebbe anche opportuno che tutti noi ci impegnassimo a riformulare la società, imparando a non misurare il tempo in base alla produttività, ritagliandoci tempo per la condivisione proprio con gli anziani e riconoscendone il valore sociale, umano e storico. Perché ciò avvenga, occorre tempo, disponibilità a mettere in discussione la propria vita, stabilendo nuove scale di valori e nuove priorità. Un compito non semplice, che se ci impegnassimo un po’ forse riusciremmo a raggiungere o quantomeno a cercare di perseguire. Bastano piccoli gesti quotidiani e piccole importanti attenzioni ai nostri nonni.
Ora i padri non potranno più esimersi dal mantenere i propri figli. I genitori, separati o divorziati, che non pagano l’assegno di mantenimento rischiano fino ad un anno di carcere o una multa fino a 1.032 euro. A sancirlo è l’art. 570 bis del codice penale, che entra pienamente in vigore, prevedendo pene nette per i genitori che si sottraggono “agli obblighi di assistenza inerenti la responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge”. La norma abolisce le diverse regole e sentenze contraddittorie che negli anni si sono susseguite, ma non si applica ai conviventi. Il procedimento del neo articolo 570bis è contemplato nella recente riforma sul riordinamento penitenziario, scritta dal governo ormai dimissionario, ma in esso viene specificato che il reato è ascritto ai padri ex coniugi, mentre non è ancora contemplato per i padri ex conviventi. Questo crea un vuoto normativo che dovrà essere colmato a stretto giro. Dunque, scatta la galera per quei genitori inadempienti che ripetutamente si rifiutano di versare i soldi alla ex moglie per contribuire al mantenimento dei figli, anche se maggiorenni. La norma, prevede, che chi non versa tale assegno non andrà subito in prigione, ma questa legge servirà sicuramente da ammonimento e monito. Nel caso, infatti, che il reato dovesse essere perpetrato nel tempo e dopo diverse sentenze, la prospettiva della prigione non sarebbe remota. La legge, conclude, con la previsione di sanzioni per quei padri, separati o divorziati, che sperperano il patrimonio familiare, non garantendo ai figli la necessaria sussistenza o eredità. Anche in questi casi la pena prevista potrebbe essere il carcere o la multa a seconda che oltre il comportamento di un genitori inadempiente, il mantenimento venga versato “a singhiozzo”. Anche in questo caso si parla di casi di ex coppie coniugate: lasciati fuori gli ex non coniugati. La legge fa scalpore ma nasce sulla base del codice penale del 1930 che già puniva con il carcere, seppur sulla carta, coloro che facevano mancare i mezzi di sostentamento al coniuge o ai figli. Poi le modifiche, sino ad oggi, in cui è reato non pagare gli assegni per i figli in genere. Discutibile su molti aspetti: ad esempio, non versare l’assegno per il figlio maggiorenne sarà punito solo se i genitori sono divorziati ma non sei genitori sono separati o addirittura conviventi. Potrebbe finire in tribunale anche chi è puntuale con l’assegno mensile ma non ha rimborsato le spese per i libri o per le vacanze dei figli. Incongruenze che fanno indispettire i tanti padri che ogni giorno si scontrano oltre che con l’astio dell’ex compagna anche con situazioni di grande stress emotivo ed economico. Molti padri di oggi perdono tutto, non riescono ad arrivare a fine mese, spesso sono ridotti alla miseria e non possono neppure detrarre dalla dichiarazione dei redditi l’assegno di mantenimento per i figli. Così può capitare che finiscano in strada, magari a dormire in macchina o in situazioni indecorose. Il nuovo articolo del codice penale di certo non va incontro ai padri separati, anzi, sembra un’ulteriore spada di Damocle per quei padri desiderosi di esserlo ma che con la separazione hanno incontrato la povertà. Intorno, però al mondo dei padri separati in difficoltà, che sembrano non esserci, -ma sono un’ampia fetta di popolazione italiana, basta vedere i dati dell’Istat relativi alle separazioni e ai divorzi
Sono quasi 900 mila, nel solo primo trimestre del 2018, le persone che beneficiano delle misure di contrasto alla povertà, e di queste sette su dieci risiedono al Sud Italia. Campania in testa, seguita da Sicilia e Calabria. E’ quanto emerso dall’Osservatorio statistico sul Reddito di Inclusione, presentato nei giorni scorsi dall’Inps e dal Ministero del Lavoro, e nel primo trimestre alle famiglie in difficoltà economica sono arrivati i primi pagamenti, per un contributo mensile di 297 euro che varia da regione a regione. Si passa da un minimo di 225 euro per la Valle d’Aosta fino ai 328 per la Campania, le regioni del Sud hanno un valore medio più alto di quelle del nord e del centro. I dati e le famiglie si coniugano poi alle 476 mila persone del Sia, avviato nel 2017. Per le famiglie in difficoltà il Rei, è uno dei principali sostegni economici ed infatti non si arresta la corsa ai servizi sociali per accedere al reddito di inclusione. E dal primo luglio la platea sia per nuclei che per persone aumenterà, visto che resterà in piedi il solo valore dell’Isee, mentre le ulteriori accezioni ad oggi previste, come nuclei familiari con persone in stato di handicap, persone ultra cinquantenni, verranno meno. E se 900 mila persone beneficiano di un sostegno che dovrebbe andare oltre all’aspetto economico ed essere accompagnato nei prossimi mesi da un progetto di reinserimento sociale e lavorativo dai servizi sociali dei comuni, l’Italia si attesta ancora il primo paese europeo per numero di cittadini in condizioni di deprivazione. Sono 10,5 milioni le persone in stato di indigenza. La classifica Eurostat vede l’Italia davanti a Romania e Francia. Sono considerate indigenti le persone che non si possono permettere almeno cinque cose necessarie per una vita dignitosa, come un pasto proteico ogni due giorni, abiti decorsi, due paia di scarpe, una settimana di vacanza all’anno, una connessione a internet. Negli ultimi dieci anni i poveri assoluti, chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali, sono triplicati nel Sud Italia. Ci sono i giovani che hanno superato gli anziani e gli stranieri, ma soprattutto le famiglie con due o più figli: la crisi economica ha ridisegnato la mappa dell’indigenza tra le fasce sociali. Dato preoccupante sono i minori: un minore su dieci vive in una situazione di grave indigenza: 1.31.000 per l’esattezza. La fotografica è stata scattata dal rapporto Caritas ed è drammatica. Aumentano, infatti, gli italiani che si rivolgono ai centri d’ascolto della Caritas. Disoccupati, precari e pensionati: la povertà in Italia cambia volto. E soprattutto continua ad aumentare. C’è l’impiegato che ha perso il lavoro e l’imprenditore con l’azienda fallita. C’è il ragioniere e l’avvocato. C’è la pensionata, l’operaio licenziato e l’esodato. Alle mense italiane della Caritas ci sono sempre più italiani. Non solo senzatetto, clochard e sbandati. L’esercito dei nuovi poveri è quello della gente comune, delle persone qualunque, uomini e donne della porta accanto, padri e madri, lavoratori e lavoratrici senza più lavoro, stroncati dalla crisi e dal precariato, finiti sul baratro da un giorno all’altro. Tra i tavoli delle mense italiane si ascoltano le storie di vita quotidiana, storie che potrebbero accadere ad ognuno di noi. C’è chi si ritrova in bilico tra la perdita del lavoro e l’attesa della pensione, è quello che oggi si chiama esodato. Si ritrovano dopo il ridimensionamento dell’azienda a far fronte all’affitto da pagare, alle spese, troppe per poter saldare senza un lavoro e così si ritrovano con la loro dignità tra i tavoli della Caritas e cercano anche ospitalità per la notte. Gli italiani alla Caritas non smettono di credere in un futuro migliore. Tenaci e non arrendevoli, nonostante tutto, seppur covano dentro rabbia contro il mondo del lavoro e contro la politica. Ma nelle mense trovano spazio, ascolto prima ancora che un pasto, gli operatori infatti riescono a supportare ed incoraggiare quanti prendono parte alla mensa, che resta l’unica realtà a cui potersi rivolgere per chi è in difficoltà. Ricerca della propria dignità, ricominciare per se stessi e per la propria famiglia, cercando autonomia ed autostima, è questo quello che emerge nell’ascoltare chi oggi fatica a reinserirsi nel tessuto lavorativo e fa i conti con lo stato di indigenza, ed è per questo che il Rei, potrà funzionare “solo” in parte, seppur nasce non solo come misura economica fine a se stessa, in quanto prevede il ruolo centrale degli assistenti sociali nel disegnare un progetto comune con l’utente per il reinserimento sociale, eppure però nei piccoli comuni ci si scontra con l’aumento delle domande, la carenza di personale, ed un progetto assistenziale difficile da disegnare senza servizi e senza equipe, infatti, i primi risultati si basano proprio sul solo aspetto economico, mentre l’aspetto sociale e dignitoso degli utenti tarda a decollare e ad arrivare, rischiando di restare un solo aiuto economico che ben presto terminerà senza lasciare autonomia e capacità di reazione nell’utente in stato di difficoltà.
Più misure alternative al carcere esclusi i reati più gravi. Questo il cardine della riforma dell’ordinamento penitenziario, approvata in Consiglio dei Ministri. Il sovraffollamento è il senso delle nuove misure, aumenta il rischio che la pena non sia rieducativa, da qui il potenziamento della rieducazione come del reinserimento sociale. Stabilite poi maggiori tutele per i diritti dei detenuti in termini di salute, identità di genere, incolumità personale, oltre ad una nuova disciplina per i colloqui con i familiari e per l’uso delle tecnologie informatiche all’interno del carcere. Il testo dovrà ora tornare alle Commissioni parlamentari per l’ultimo vaglio, ma, intanto non è esente dalla polemica politica. All’attacco il centro destra: da Fratelli d’Italia, alla Lega, che promettono battaglia. “Non è un salva ladri, né uno svuota carceri” ha precisato il guardasigilli Orlando, che ha spiegato che si dovrà valutare il comportamento del detenuto e ammetterlo a misure alternative al carcere, che prevedono percorsi di lavoro e di servizio sociale, che gli consentono di restituire qualcosa di quello che ha tolto alla società e di non essere recidivo. Misure che mirano ad abbattere il muro delle recidive, che resta il più alto in Europa, seppur in Italia si spende quasi 3 miliardi l’anno per il trattamento dei detenuti, così come confermato da Orlando. L’obiettivo principale della riforma è rendere attuale l’ordinamento penitenziario previsto dalla legge di riforma penitenziaria 354/1975, per adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza della Corte Costituzionale, Corte di Cassazione e delle Corti europee. Quindi con soluzioni che non indeboliscano la sicurezza della collettività, infatti, non si estende la possibilità ai detenuti in regime di 41bis per reati di mafia e per i reati di terrorismo, ma si riporti al centro del sistema la finalità rieducativa della pena indicata anche dall’articolo 27 della Costituzione, ma anche facilitare la gestione del settore penitenziario e a diminuire il sovraffollamento. Un passo legislativo sui temi delicati come la salute psichica, l’accesso alle misure alternative, la vita interna alle carceri, i rapporti con l’esterno ed il sistema disciplinare. Carceri e condizioni disumane, da anni il dibattito infuoca il mondo politico e si pone al centro dell’attenzione. Dopo una flessione nel numero dei detenuti seguita dalla sentenza Torreggiani, con la quale la Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, negli ultimi tre anni si è assistito ad un aumento costante delle presenze in carcere. La riforma dell’ordinamento penitenziario, dovrebbe dare l’opportunità di tornare a far calare gli attuali numeri con ripercussioni positive sulla vita in carcere. Le questioni attualmente aperte, che riguardano le carceri italiane, che proprio a causa del sovraffollamento, non riescono a trovare soluzioni. Tra questi ad esempio la necessità di ampie ristrutturazioni degli istituti. In più della metà delle strutture ci sono celle senza doccia ed in molte celle manca l’ acqua calda, in violazione di quanto prevede la legge. Sovraffollamento e aumento dei suicidi si presentano così, oggi, gli istituti di pena italiani, destinati ad accogliere soggetti che trasgredendo le prescrizioni di legge, sono sanzionati con la pena. Condizioni disumane e poche opportunità di recupero, così come è nell’intento della riforma del ’75: la pena deve avere caratteri di rieducazione e reinserimento educativo e sociale. Una realtà, quella del sistema penitenziario rinnegata ed oscura per troppi anni, sino ad oggi, in questo colpo di coda del governo, che propone misure alternative che reinseriscano nella società con dignità e rispetto del detenuto e della comunità stessa, restando fermo nell’intento che spetta al magistrato di sorveglianza, così come detta anche il diritto penitenziario, ogni decisione in merito, valutando ogni singolo caso. La proposta di modifica dell’ordinamento penitenziario dalla sua ha un’apertura umana, dignitosa, ma restano ancora diritti come i minori e la sessualità da affrontare. L’auspicio è che la grossa maggioranza, fresca di vincitori, guardi anche al sistema carcerario, perché ci sono luoghi come le celle, dai quali ci si aspetta il loro regno con l’orecchio al suolo e le braccia intorno alla testa, cercando di emergere da quel braccio carcerario che oggi li tieni lì.
In preda a raptus di follia, accecati dalla rabbia verso il proprio compagno, o la propria compagna, molti genitori si macchiano col crimine dell’assassinio. Ammazzano la madre dei loro figli, e ci sono madri che uccidono i loro bambini. La lista dell’orrore, è tragicamente lunga. Può anche sembrare una cosa immonda e del tutto innaturale, le madri possono uccidere i propri piccoli ed i padri possono sottrarre per la vita la mamma ai loro figli. A volte senza capire la mostruosità del loro gesto, ma altre volte con la mente terribilmente lucida. Genitori assassini e figli al mondo, che cresceranno con un genitore in carcere ed una madre nella tomba, sono i figli del femminicidio, soli col peso dell’assassino in casa: il loro papà. Ma, ci sono anche quei bambini, che restano col papà e crescono con l’ombra di una madre in cella perché ha ucciso il proprio fratello. Veronica Panarello ha perso la potestà genitoriale nei confronti del figlio minore. La giovane donna in carcere con l’accusa di aver ucciso il piccolo Loris Stival a Santa Croce Camerina in provincia di Ragusa, non potrà neanche essere informata dell’evoluzione della crescita del suo secondogenito, che resterà sotto l’esclusiva responsabilità del padre, il quale tra l’altro ha chiesto il divorzio alla madre. E’ stato dichiarato “decaduto dalla civile responsabilità genitoriale sulla figlia” dal Tribunale per i minorenni di Napoli, Salvatore Parolisi, l’ex caporal maggiore, condannato in via definitiva per l’omicidio della moglie Melania Rea, non potrà più nemmeno avere rapporti con la figlia: sospesi ogni incontro, visita o rapporto telefonico ed epistolare tra la bambina e Parolisi. La decisione del Collegio, composto anche da esperti psicologi, è avvenuta in considerazione dell’ “assoluta gravità dei comportamenti” e del fatto che “in assoluto disprezzo delle drammatiche conseguenze per la figlia veniva dal Parolisi Salvatore uccisa la madre della minore con la figlia probabilmente in macchina, si spera addormentata”, si legge negli atti. Una volta si parlava di patria potestà, oggi di responsabilità genitoriale: questa può decadere se l’adulto è violento verso il figlio o altri, se si espone il bambino a pericoli, se lo si trascura ripetutamente. L’iter comincia da un parente, un insegnante o un conoscente che segnala il caso ai servizi sociali. E’ accaduto ai “genitori-nonni” di Casale Monferrato, finiti sulle pagine di cronaca per aver avuto una figlia nel 2010, quando lei aveva 56 anni e lui 68, e accusati da un vicino di casa di abbandono della bimba, poi adottata da un’altra famiglia. Dopo la segnalazione, i servizi sociali indagano e mandano una relazione al Tribunale dei minori, che può aprire il cosiddetto provvedimento di decadenza. A questo punto la responsabilità genitoriale può essere sospesa: è come se fosse affievolita, le capacità dell’adulto vanno monitorate, viene aiutato a migliorarsi e il giudice può decidere di allontanare il genitore di casa, se è violento o ha problemi di droga. Oppure la responsabilità può decadere: il minore può essere trasferito in una struttura protetta, i rapporti con la famiglia si interrompono ma psicologi ed assistenti sociali, lavoreranno per ricucire lo strappo, ma se questo è irrecuperabile, o se ci sono gravi questioni penali in corso, il giudice dichiara il minore adottabile e, se è possibile, lo affida ai nonni o ai parenti. L’allontanamento è una misura estrema basata su prove. Sono decisioni sempre delicate che talora innestano indagini e processi molto complessi: basta pensare agli oltre quaranta provvedimenti di allontanamento chiesti negli ultimi mesi dal tribunale di Reggio Calabria per figli di mafiosi. Poi ci sono quei bambini il cui sicario era in casa: il loro papà che ha ucciso la madre, e per loro il trauma si amplifica, restano senza figure genitoriali, ritrovandosi di fronte ad una realtà complessa e tragica, nonostante il supporto familiare, saranno dei bambini segnati, che talvolta si chiederanno “perché?” e cercheranno di capire com’è, come si sta in una famiglia formata da mamma e papà. Ed è per questo che non vanno lasciati soli ad elaborare una mancanza che ogni giorno nonostante l’amore e l’affetto che avranno quotidianamente. E ci sono anche i bambini che non rivedranno più la loro mamma, perché messi di fronte all’agghiacciante notizia che è l’assassina di suo fratello. In questi bambini che affrontano una tragedia così grande, elaborano dentro di loro non solo il lutto e la mancanza della madre ma anche il senso della responsabilità. Che spesso affidano nel modo più crudo possibile ad un disegno. Tratteggiando come i bambini siano esseri puliti e tutte le cose brutte che gli adulti fanno purtroppo sono destinate a ricadere anche su di loro.
Oltre 75 mila in poco più di un mese: tante sono le domande di Reddito di Inclusione trasmesse all’Inps dai Comuni italiani tra il 1° dicembre 2017 ed il 2 gennaio 2018. Per la nuova misura unica nazionale a carattere universale per il contrasto della povertà e dell’esclusione sociale. Quasi due richieste su tre sono arrivate dalle regioni del Sud. Al primo posto c’è la Campania con quasi il 22% delle domande, seguono la Sicilia e la Calabria. Il Reddito di Inclusione viene riconosciuto a famiglie con Isee non superiore a 6.000 euro e un valore del patrimonio immobiliare diverso dalla casa di abitazione non superiore a 20.000 euro. In questa prima fase, fino al 30 giugno 2018, possono richiederlo solo le famiglie che oltre al requisito patrimoniale, abbiano in famiglia un figlio minore oppure una persona disabile, o una donna in gravidanza, oppure un disoccupato sopra i 55 anni. Dal primo luglio 2018, invece, per richiedere il Reddito di Inclusione, basterà che le famiglie siano in possesso solo dei requisiti economici e patrimoniali previsti dal decreto. Rei e “dopo di noi”, le misure più innovative del welfare nazionale, che fanno leva su un progetto individuale, mettendo al centro la professionalità degli assistenti sociali. Un progetto personalizzato di attivazione di inclusione sociale e lavorativa nel decreto legislativo 147/2017 e un progetto individuale, preceduto da una valutazione multidimensionale, nella legge 112/2016: il Reddito di Inclusione che ha debuttato il primo gennaio 2018, puntando forte sul progetto personalizzato. Detta in altri termini, significa che la misura nazionale di welfare recente più innovativa, individua nell’assistente sociale il professionista centrale per attuare il cambio di paradigma di un welfare che vuole superare la logica del “bisogno” in favore dei diritti delle persone. Una misura che apre e avvia alla collaborazione forte con altri soggetti del territorio, giocando un confronto su tre livelli: il livello politico, con cui è indispensabile raccordarsi, uno organizzativo e metodologico, perché tanti colleghi hanno ruoli di responsabilità ed un ruolo operativo, di rapporto diretto con le persone, che richiede un aggiornamento costante e un riferimento forte a elementi teorici e metodologici. La sfida che la nuova misura lancia agli addetti ai lavori è di un modello ed un linguaggio nuovo: non si parla più di utenti e di presa in carico ma di persone e di progetti di inclusione, di opportunità. Infatti, i tratti peculiari sono proprio l’autodeterminazione della persona, la cultura dell’empowerment ed il passaggio dalla prestazione alla progettazione sociale. Una misura innovativa, che si pone in una logica diversa, ma è compito degli assistenti sociali cercare le persone in povertà assoluta, anche quelle che non arrivano ai servizi, proprio perché c’è una misura che si pone come livello essenziale: la legge crea le condizioni ma l’attuazione avviene nei territori. Il Rei non è solo un sostegno economico, ma un approccio globale, fatto di opportunità lavorative, di sostegno sanitario, formativo, ciò è possibile solo se c’è un lavoro di rete professionale e di servizi. Il patto diventa opportunità se c’è comprensione di cosa sia la povertà, se si trovano spazi relazionali, se c’è promozione di reti sul territorio. Il Sia prima ed il Rei oggi partono con fatica, con difficoltà, non senza intoppi, dettati dalla carenza di personale all’interno dei comuni d’ambito, dalla mancata formazione dei professionisti, ma ciò ci dice quale sia la portata della sfida. Si sta lavorando per la costruzione di un soggetto che sia Alleanza contro la povertà. Una sfida non da poco, l’ennesima che l’Italia intraprende: ci ha già provato con la Social Card e misure tampone, ma questa è l’opportunità di crescita sia per la coesione professionale e dei servizi, quanto per i soggetti in stato di povertà e di emarginazione, che con l’aiuto non solo economico ma dei servizi sociali, viene accompagnato in un percorso fatto di autonomia e di opportunità. Una sfida che l’Italia ed i Servizi Sociali questa volta vinceranno? Solo il tempo ci potrà dire.
L’obiettivo è aiutare le persone in difficoltà economica: secondo l’Istat, in Italia, sono 4,6 milioni le persone che vivono in condizione di povertà assoluta. La legge contro la povertà prevede gli interventi da mettere in campo per sostenere le famiglie più povere sparse su tutto il territorio nazionale. Da queste premesse nasce il Reddito di Inclusione Sociale (REI), un passo storico verso l’introduzione di una misura universale che tenga conto della condizione di bisogno economico e non dell’appartenenza a singole categorie. Da oggi, 1 dicembre, sarà possibile presentare la domanda per ottenere il Reddito di Inclusione, prima misura di contrasto alla povertà. Si tratta di un beneficio economico combinato ad un progetto personalizzato per: famiglie con minori, disabili, donne in gravidanza a quattro mesi dal parto, disoccupati con più di 55 anni. A partire dal primo Gennaio 2018 andrà da 187, euro, mensili, a persone singole, ad un massimo di 485 euro, mensili, per cinque componenti, erogati per un massimo di diciotto mesi, rinnovabile per altri dodici mesi ma solo se saranno passati sei mesi dal godimento della prestazione. La famiglia beneficiaria dovrà attenersi al progetto personalizzato o subirà decurtazioni o decadenza. Il reddito di inclusione non è compatibile con altri ammortizzatori sociali di un qualsiasi membro familiare. Per ottenere il beneficio l’Isee familiare non deve eccedere i sei mila euro, mentre, l’indicatore individuale Irsee non deve superare i tremila euro. Oltre l’abitazione non si possono avere immobili che valgono più di ventimila euro, e più di diecimila euro in denaro. Può essere chiesto da europei o extracomunitari con permesso di soggiorno residenti in Italia da almeno due anni. Le domande potranno essere presentate dagli interessati o da un componente del nucleo familiare in un punto d’accesso Rei che verranno identificati dai Comuni o ambiti territoriali. Il comune raccoglierà la domanda, verifica i requisiti di cittadinanza e residenza e saranno inviate entro trenta giorni lavorativi. L’Inps entro i successivi cinque giorni verifica il possesso dei requisiti e in caso di esito positivo riconosce il beneficio. Una misura di contrasto alla povertà che richiama ad un ruolo centrale l’assistente sociale, che avrà il compito di delineare un progetto personalizzato che miri al reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale. Quindi un comune deve avere un sistema di interventi e servizi sociali con delle caratteristiche: segretariato sociale per l’accesso, servizio sociale professionale per la valutazione multidimensionale dei bisogni e la presa in carico, accordi territoriali con servizi per l’impiego, la tutela della salute e dell’istruzione, e con gli altri soggetti privati. Il progetto personalizzato seguirà due fasi importanti: una prima, definita preassessment, che orienta gli operatori e le famiglie nella decisione sul percorso da svolgere per la pre-analisi, che definisce il progetto e determina la composizione dell’equipe multidimensionale che dovrà accompagnare e attuare il progetto. Il preassessment guida e orienta l’osservazione degli operatori: raccolta delle informazioni sul nucleo familiare, i fattori di vulnerabilità dei singoli componenti, la storia familiare e la valutazione complessiva. Ogni progetto sarà seguito da un equipe, di solito formata dall’assistente sociale e dall’operatore dei servizi per l’impiego. Ma, potrebbero essere coinvolte altre figure professionali in base alle problematiche presentate dal nucleo familiare. Segue poi la fase dell’assessment, un quadro di analisi, che identifica i bisogni e le potenzialità dei componenti familiari. Tre sono le dimensione che verranno prese in considerazione: i bisogni della famiglia e dei componenti per cui si guarderà al reddito, alla salute e all’istruzione; le risorse che possono essere attivate, capacità e potenzialità; e i fattori ambientali che possono sostenere questo percorso, ovvero, rete familiare e reti sociali. La progettazione mirerà soprattutto al superamento della condizione di povertà, all’inserimento lavorativo dei componenti familiari, per cui i componenti familiari si assumeranno delle responsabilità. Una misura che non và vista come il classico gettito di soldi rivolto a chiunque e da utilizzare, ma come un punto di partenza, una possibilità per riscattarsi a livello sociale e lavorativo. Ma, è una misura che rischia di fallire anche perché molti comuni del Sud Italia non sono pronti alla misura, manca il personale: gli assistenti sociali sono sotto organico, di nuove assunzioni neanche l’ombra, e si rischia che le pratiche restino impolverate in qualche ufficio mentre le buone intenzioni del Governo resteranno solo utopia in un investimento che sembra più perdere che vincere. Noi vogliamo avere fiducia nel nostro Governo e vogliamo credere che il Sia rappresenti una reale misura per contrastare la povertà e l’esclusione sociale.