Trova la figlia morta e si lancia nel vuoto. La tragedia in un mattino di fine agosto sconvolge e lascia sotto shock la città di Pagani, in provincia di Salerno. Sono morte a distanza di poche ore mamma e figlia, unite da un dolore comune, legate anche dal dramma di un gesto estremo: all’alba di ieri un’ex infermiera della cittadina salernitana si è lanciata dal terzo piano della sua abitazione del centro storico della città, dopo aver rinvenuto il corpo della figlia, ventiseienne, priva di vita nel suo letto. Una storia familiare dolorosa, fatta di malesseri e stati depressivi, difficoltà che si acuivano mentre il malessere interiore logorava le loro vite, chiuse nell’estrema riservatezza. Pochi mesi fa, si racconta, c’era stato un altro episodio: atti di autolesionismo a cui fece seguito un intervento tempestivo. Madre e figlia, insieme, in un legame indissolubile, stessa strada nella cura come nella morte. Insieme nel viaggio tempestoso e problematico della vita ed insieme anche nella morte. I racconti umani delineano il profilo di due donne discrete, educate, composte, chiuse nella loro riservatezza e nel percorso di rinascita della vita che le ha viste unite anche nel tragico gesto , del fine vita. Oltre la cronaca, oggi però si punta il dito sui professionisti che da tempo seguivano le donne: erano in carico ai Servizi Sociali Comunali e al Dipartimento di Salute Mentale, professionisti che hanno fatto tutto quanto in loro potere per tentare di offrire soluzioni e sostegno. Non entrerò negli aspetti procedurali o nel singolo episodio, ma è giusto far chiarezza anche sotto gli aspetti professionali che vengono messi in discussione in queste ore e nell’immediato accaduto di episodi simili. Quando, gli organi di stampa, riportano la dicitura “erano seguiti dagli assistenti sociali”, si pensa a dei servizi latenti o assenteisti. L’immagine che si configura è quella di una lotta tra l’opinione pubblica e gli operatori sociali, nemici e rivali, il cui oggetto del contendere è una storia che merita rispetto ed una morte che merita la sua privacy anche nell’ultimo drammatico atto della vita. Voglio fare alcune riflessioni di carattere generale. La versione dei fatti che si mormora è ovviamente unilaterale, si ferma al chiacchiericcio di strada. Gli operatori sociali, gli esperti del settore socio-sanitario e i magistrati non possono replicare perché, altrimenti rivelerebbero notizie del fascicolo di soggetti in carico, notizie davvero delicate, talvolta drammatiche, e comunque destinate solo ai canali istituzionali. Per cui non aspettatevi l’assistente sociale nel salotto televisivo che replica o una smentita ad una notizia, perché sarebbe deontologicamente scorretto. Mentre, si racconta di aver fatto poco o di averlo fatto male, nessun operatore sociale potrà replicare, difendere il proprio operato, perché si tratta di un lavoro umanamente bello ma alquanto complesso e difficile, perché non è facile seguire le vite contorte, difficoltose, arrovelliate, di chi attraversa un momento di vita non facile, difficile è poi intraprendere un cammino con il proprio utente, che serba timori, paure, perplessità ed ha soprattutto i suoi tempi per fidarsi, aprirsi e vedere l’assistente sociale come “l’estraneo di fiducia”. Esiste poi una tutela legislativa alla riservatezza dei fatti, alla quale nessun operatore socio-sanitario può sottrarsi. Come si vede, i problemi sono molti e di notevole spessore, che restano in bilico con la tentazione di assecondare la curiosità e l’emotività dell’opinione pubblica. Non solo un aspetto sociale ma anche psicologico delinea la vicenda, è così che ho deciso, credendo fortemente e fermamente nell’integrazione professionale e nel lavoro d’equipe di consultare un’abilitanta in psicologia, laureata in psicologia cognitiva, con esperienze di tirocinio al Dipartimento di Salute Mentale di Nocera Inferiore, la dottoressa Verdiana Abitudine con la quale ho cercato di approfondire la tematica del suicidio e gli aspetti psicologici correlati.
1. Dottoressa il caso del duplice suicidio di Pagani ha scosso l’intera comunità che incredula si chiede come sia potuto succedere. Cosa scatta nella psiche umana, perché si arriva a pensare e a compiere il suicidio?
Il suicidio viene considerato dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) la seconda causa di morte in Italia dopo gli incidenti stradali, e nel mondo oltre 800.000 persone all’ anno muoiono per la medesima causa. Sono casi che destano sempre tanto sgomento e la prima domanda che ci si pone è : “perchè lo ha fatto?”. Ebbene è sempre un compito difficoltoso rispondere con esattezza a questa domanda, perchè ogni caso è a sè e dietro ognuno si celano le più svariate motivazioni: che sia la presenza di un nucleo depressivo, ansioso, un disturbo psicotico, una sofferenza che attanaglia la propria vita, un periodo di marcata vulnerabilità psicologica; insomma, anche se la motivazione è differente da caso a caso c’è comunque un fattore che accomuna tutte queste tristi vicende ovvero uno stato di “disperazione”, per cui il suicidio viene delineato come l’unica via di fuga da un’ insostenibile situazione dolorosa, un problema apparentemente irrisolvibile che chiude le finestre del futuro e non lascia entrare alcuno spiraglio di luce; infatti non è la situazione in sè ad essere così grave quanto l’importanza che gli si attribuisce. Per questo motivo il tentativo di effettuare a posteriori un’autopsia psicologica potrà fornirci un quadro solo parzialmente adeguato, salvo qualche minima percentuale di casi in cui al gesto siano precedute minacce o risultino pervenute le motivazioni del suicida stesso attraverso lettere o altri strumenti.
2. Sappiamo che le due donne erano seguite dal Dipartimento di Salute Mentale, l’opinione pubblica spesso si chiede come possa accadere un evento del genere quando si è seguiti da dei professionisti, ci può spiegare meglio lei?
Il gesto suicidario non è mai prevedibile e forse nei rari casi in cui ci si trova di fronte a palesi minacce di suicidio, si tratta di semplici “tentativi” inscenati sottoforma di richiesta di aiuto e ricerca di attenzioni, nei quali casi possiamo trovare ancora nell’individuo la speranza di un miglioramento, un voler vedere dopo cosa succede, cosa cambia. Nel caso specifico la ragazza era seguita dal DSM, ma non sempre le vittime hanno il coraggio di chiedere aiuto e rivolgersi a figure professionali con le quali intraprendere specifici percorsi. Molteplici, infatti, sono i casi di impensabili vittime, anche giovani, che non hanno dato pregressi allarmi di ritiro sociale, di richiesta di aiuto nemmeno in famiglia, di periodi difficili e che da un giorno all’altro lasciano oltre al dolore della loro perdita anche l’incredulità delle persone che “mai si sarebbero immaginati, proprio lui!”. Tutto questo per dire che il primo passo da compiere in assoluto è rivolgersi a psicologi e psicoterapeuti i quali, con appositi percorsi, sostengono i pazienti nelle loro vicissitudini quotidiane perchè, ci tengo a sottolinearlo, “NO, non è una vergogna rivolgersi ad uno psicologo”, non è sinonimo di debolezza e non si tratta di una stigmatizzazione! in terapia si può lavorare su sè stessi, eventualmente lottare contro istinti suicidi, mascherati e non, attraverso dei programmi di rafforzamento delle proprie risorse personali, delle proprie capacità di fronteggiare gli stressors della vita, di aumentare la propria resilienza ma si tratta di processi che richiedono tempo, costanza e determinazione oltre che un precoce intervento.
3. Normalmente qual è il percorso che segue una persona in carico al DSM?
I dipartimenti di salute mentale offrono percorsi di sostegno di vari approcci a seconda delle esigenze dell’utenza, con equipe multidisciplinare che si avvale dell’uso di strumenti testistici per l’inquadramento approfondito del paziente in modo da proporre interventi personalizzati presso psicoterapeuti o, eventualmente, terapie farmacologiche con psichiatri. Inoltre l’equipe infermieristica provvede alla continuità della terapia farmacologica sia in loco che domiciliare per garantire a coloro che sono impossibilitati le cure prescritte.
4. Nel caso specifico, la madre pare abbia rinvenuto il cadavere della figlia suicida, dopodiché ha deciso di togliersi anche lei la vita. Spesso i genitori si trovano dinanzi la morte di un figlio, come è possibile sopravvivere ad uno choc del genere ed in che modo posso essere aiutati nell’elaborare il loro lutto?
Quando un individuo attua un suicidio crea un sistema luttuoso con ripercussioni sull’intera società e sui conoscenti della vittima. I genitori, ovviamente, vivono una situazione traumatica incomparabile rispetto a quella comune e difficilmente elaborabile, al punto da persistere anche oltre 12 mesi configurandosi come “lutto complicato” con connotazioni patologiche. L’esperienza è devastante per il genitore che perde il senso della sua esistenza e pertanto andrebbe tempestivamente programmato un intervento di sostegno per consentire l’elaborazione del lutto. Dunque non è semplice ma non deve essere impossibile il superamento di un episodio traumatico di questo genere, anche se nel caso specifico non conosciamo ancora dettagliatamente le dinamiche, mi verrebbe da dire che si tratti di un gesto impulsivo di una madre che vede scomparire per sempre la sua, forse, unica ragione di vita.
5. Il lutto di un suicidio colpisce anche il professionista che ha in cura il paziente, quali sono le principali reazioni dei professionisti al suicidio di un paziente?
Purtroppo la notizia del suicidio di un paziente ha sempre un’alta risonanza per lo psicologo come per l’intera società e si accompagna spesso a sensi di colpa, tristezza, rabbia oltre che un senso di fallimento che va ad inficiare l’autostima. Nel 90% dei casi i pazienti suicidi compiono il gesto nel momento in cui non si trovano più in terapia perchè hanno interrotto o terminato, ciò non esclude che sia improbabile che accada anche a chi continua il percorso terapeutico. Di certo non va sottovalutata la possibilità di programmi di sostegno o prevenzione terziaria rivolta ai sopravvissuti e quindi anche al terapeuta qualora ne avesse esigenza.
6. Per chi ha rinvenuto il cadavere della madre o ha visto il corpo in terra senza vita è senza dubbio un’esperienza difficile, cosa consiglia per chi ha assistito a quell’immagine?
Anche in questo caso stiamo parlando di un episodio altamente stressante, per quanto ognuno abbia una soglia di impressionabilità differente dalle altre, rinvenire un cadavere e trovarsi di fronte a scenari così forti mette a dura prova gli operatori i quali potrebbero manifestare, a venire, diverse risposte sintomatiche che andrebbero ridimensionate affinchè non causino compromissione in ambito socio-lavorativo, e anche in questo caso la soluzione che consiglio è rivolgersi a psicologi e psicoterapeuti in modo da condividere l’esperienza traumatica e risponderle in modo efficace.
Con la collaborazione di Verdiana Abitudine, dottoressa laureata in psicologia clinica
La nave “Diciotti” è diventata ormai una nave simbolo della guerra dell’accoglienza tra Italia e Unione Europea. Nel trattenere i migranti a bordo il governo italiano vuole far smuovere l’Unione Europea sul delicato tema dell’accoglienza. E’ così che dopo cinque giorni di navigazione e due di fermo nel porto di Catania, dopo le sollecitazioni della Procura di Agrigento e quella dei minori di Catania, in base a quanto previsto dalle convenzioni internazionali e dalla legge italiana, il Ministro degli Interni, Matteo Salvini, ha annunciato il “sì” allo sbarco dei 29 minori non accompagnati a bordo. Si tratta di ragazzi eritrei tra i 14 ed i 16 anni e di una bambina che sono stati trasferiti in due centri di accoglienza messi a disposizione dai servizi sociali del comune di Catania. Orfani delle onde del Mediterraneo, piccoli anonimi che arrivano in Italia. Schiavi invisibili, giovanissime vittime dello sfruttamento e della tratta dei migranti. Un fenomeno nascosto e difficile da tracciare che vede come protagonisti i minori stranieri giunti in Italia via mare e via terra, molti dei quali non accompagnati da genitori o parenti. Rappresentando un potenziale bacino di sfruttamento per coloro che cercano di trarre beneficio dal flusso migratorio, speculando in vari modi sulla vulnerabilità dei più piccoli: dallo sfruttamento nel mercato del lavoro nero, alla prostituzione, passando per lo spaccio di droga, sino ad attività criminali. Secondo un rapporto di “Save the Children” , tre minori su quattro che arrivano in Italia sono soli. E negli ultimi anni i numeri si sono addirittura quadruplicati. E negli ultimi anni i numeri si sono addirittura quadruplicati. Sono più di 16 mila i ragazzi arrivati in Italia da soli. Dal 2011 costituiscono il dieci percento di tutti i rifugiati. Rischiano di finire in un girone infernale delineato dallo sfruttamento e dal maltrattamento, ma l’opportunità di tutela è fornita dall’esercito di tutori volontari per minori stranieri soli. Assumere la rappresentanza giuridica di un minore straniero solo, farsi carico dei suoi problemi, capire e spiegare agli altri suoi bisogni e diventare portavoce dei suoi diritti fino alla maggiore età. Insomma, proteggerlo negli anni più fragili e difficili. E’ questo il ruolo più importante del tutore volontario, una nuova figura nata per dare un sostegno ai percorsi di accoglienza, educazione e integrazione nella nostra società, per i quasi 18 mila minori stranieri rimasti soli sul territorio italiano. Un numero forte ed in continua crescita che ha portato alla legge 47/2017, che prevede tra le altre cose l’istituzione presso i Tribunali per i minori di elenchi di tutori volontari disponibili ad assumere la tutela. Protezione e tutela, le parole d’ordine per i quasi 18 mila minori soli, di cui la maggioranza è al maschile, le ragazze sono un numero esiguo: 1.209, molti dei quali provengono dalla Nigeria, e necessitano di massima attenzione. E’ stata ribattezzata come “cittadinanza attiva” o “genitorialità sociale” dall’autorità garante per l’infanzia. Sono già oltre tremila le persone che hanno dato la loro disponibilità in questi mesi a diventare tutore volontario, decidendo di dedicare una parte del loro tempo per migliorare la vita di uno dei quasi diciannovemila minori stranieri non accompagnati presenti nel nostro paese. Impegni ed iniziative per il tutore. La nuova legge non prevede, infatti, la presa in carico domiciliare ed economica del minore. Il tutore svolge le pratiche amministrative, come ad esempio il permesso di soggiorno, valuta se presentare domanda di asilo o protezione internazionale, se sono necessarie prestazioni sanitarie urgenti, accompagna il giovane nella formazione, nell’istruzione scolastica e nell’apprendimento della lingua italiana. “Il tutore dovrà prendersi cura del minore e avrà la funzione di guida”, dicono dall’autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Alcune regioni hanno avviato anche corsi di formazione per i futuri tutori. La durata dell’impegno del tutore è legata all’età del minore. Le persone vengono inserite nell’elenco istituto presso il Tribunale per i minori da cui il giudice attinge per nominare i tutori. Ogni tutore volontario può essere chiamato ad affiancare fino ad un massimo di tre minori stranieri non accompagnati, salvo sussistano delle ragioni speciali, ad esempio un gruppo di quattro fratelli. Una persona smette di essere tutore per un ragazzo al compimento dei 18 anni e può diventare tutore di un altro minore. Si rende necessario però un’attività di raccordo tra i Tribunali per i minori dove sono istituti gli elenchi e il tribunale ordinario deputato alla nomina. Un istituto, quello del tutore, che la legge prevede nella sua gratuita dei compiti. Alcune regioni hanno previsto delle forme di sostegno su particolari questioni, come la stipula di una polizza assicurativa. Negli ultimi mesi sono stati pubblicati diversi bandi per tutori, le prime risposte sembrano essere più che nuove, ma non sufficienti secondo le autorità per i 18 mila ragazzi che hanno bisogno di una guida. Così si rafforzano le campagne pubblicitarie e web per rafforzare l’idea di una genitorialità sociale dando l’occasione ad un ragazzo di cambiare con l’aiuto di un tutore il suo presente e modellare il suo futuro.
Di lavoro e di caldo si muore davvero. La cronaca di questa estate ci restituisce sedici morti. Migranti stipati in furgone, morti nella tratta dai campi alle loro baracche. Ieri nuovo schianto nel Foggiano, morti dodici braccianti. Sabato un altro incidente in cui hanno perso la vita quattro vittime. Si indaga per verificare se fossero nelle mani dei caporali. Ombre e sospetti che riportano alla cronaca le morti sul lavoro che a causa delle temperature altissime portano i braccianti ad accasciarsi nei campi, nei cantieri e anche sui camion. Lo chiamano caporalato, ma si legge sfruttamento umano, che non conosce limiti e va combattuto, tutelando i diritti dei lavoratori, qualunque essi siano, qualsiasi sia la loro nazionalità, oltre ogni colore della pelle. Lavoratori, che prima di tutto sono esseri umani. Sono lavoratori invisibili per la legge che però assicurano manodopera nelle condizioni più disagiate e con paghe da fame. Secondo alcune stime sarebbero 400 mila in tutta Italia e la conta delle vittime dello sfruttamento rischia di rimanere parziale: le loro morti a volte passano in silenzio, altre volte rischiano di essere catalogate come incidenti stradali, perché spesso si ribaltano i pulmini carichi di lavoratori. Viaggiano in venti su mezzi omologati per nove e finiscono per essere contate come vittime della strada. Un fenomeno che non nasce oggi, ma si radica di anno in anno, anche perché le norme, sancite dalla legge 199/2016, che sanzionano il caporalato sono di difficile applicazione. Le aziende trattano direttamente con i caporali il prezzo della manodopera, i lavoratori vengono caricati su dei pulmini all’alba, per arrivare in campi di periferia, durante il viaggio qualcuno si addormenta e quando arriva a destinazione, scendendo i gradini del pulmino non sa neppure dove si trova. Uno o due euro per ogni cassetta di prodotti della terra, che vuol dire ore ed ore con la schiena piegata sotto il sole cocente. Così il sole del Sud per molti è sinonimo di vacanza ben riuscita, per altri si trasforma in una condanna quotidiana. Un’emergenza e le morti ci invitano a reagire ed in tempi brevi. Nell’estate del decreto dignità che vuole restituire, stando alle parole del suo ideatore il Ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, dignità ai lavoratori, non possiamo e non dobbiamo girarci dall’altra parte dinanzi ad una realtà vera e disumana. Impegno ed intensità, proprio come si combatte da anni nel nostro paese la battaglia contro la criminalità organizzata, perché i caporali sono delinquenti. Nel frattempo in una delle estati più calde uomini e donne continuano a spaccarsi la schiena per pochi euro al giorno, rischiando ogni giorno di morire di caldo e di lavoro, una realtà che ci circonda: molti dei prodotti che acquistiamo al supermercato provengono da una filiera sporca, fatta di sfruttamento nei campi e grandi guadagni per le multinazionali dell’agricoltura. Eppure gli strumenti ci sono, basterebbe solo accoglierli in un’ottica di rispetto ed umanità. Il rispetto dei diritti umani, specialmente in campo lavorativo, permette il progresso economico, sociale e culturale. Il lavoro dignitoso, dunque, è proprio la chiave di volta, l’elemento essenziale capace di implementare uno sviluppo equo e sostenibile nel tempo. C’è bisogno di uno sforzo condiviso: da parte del lavoratore che deve superare le paure ed i timori e denunciare lo sfruttamento lavorativo, perché il silenzio di tutti rafforza ciò che puzza di illegale e disumano. Di recente è nata una campagna nazionale di Fai-Cisl, denominata “Sos caporalato”, un numero verde e spazi social dedicati a raccogliere le segnalazioni e le denunce di quanti lavorano in condizioni di sfruttamento e illegalità nell’agroalimentare. Le segnalazioni al numero verde 800-199-100 serviranno per un monitoraggio sull’evoluzione del fenomeno e consentiranno anche a dare voce a tante lavoratrici e tanti lavoratori vittime di caporalato. D’altra parte c’è bisogno di uno sforzo legislativo che garantisca dignità ai lavoratori, punendo il fenomeno con la certezza della pena. Puntando a creare una filiera agroalimentare controllata, tracciata e seguita.
L’hanno ribattezzata “Pagani città di Santi, Artisti e Mercanti”, nel suo ventre, il piccolo comune del salernitano, conserva storia, tradizioni, riti e miti che il tempo non ha cancellato bensì scalfito. I vicoli, intatti, sanno di storia e di unione: “o vicino è ‘mmiezo parente”, rapporti umani e fedeli che si tramandano. Fede che và a braccetto con tradizione, giovani che nascono nel solco di antiche tradizioni, una su tutte la festa della Madonna delle Galline, un vero rito che abbraccia tra fede e momenti civili un’intera comunità la prima domenica in albis, per tre giorni Pagani sa di tagliolino al sugo e carciofi arrostiti, di preghiere ed incenso, di vie che si affollano, si riempiono di vita e di devozione. Alla tavola del paganese c’è sempre un posto, per chiunque, per vivere insieme una festa sentita, vera, mai banale, che si rinnova. Identità scolpita e scalfita da lui, Franco Tiano. Nei toselli, c’è la vera anima della festa e lui ne è l’ideatore e l’anima che nonostante la sua scomparsa, si ricorda con cuore colmo di affetto ed una mancanza che si percepisce e si sente. Una festa che non perde l’anima sacra e viscerale, lasciata anche da Franco Tiano e trasformata in una cosa ancor più grande. Si intitola “L’Africano” il tratto umano, personale, storico, emozionante dedicato a Franco Tiano, nato dalla regia di Laura Mandolesi Ferrini, giornalista Rai e regista appassionata, che firma il mediometraggio, un film documentario, proiettato fuori concorso al Giffoni Film Festival, la grande astronave del cinema giovanile. Occhi puntati sullo schermo, assorti, rapiti, incuriositi, ero in sala e guardandomi in torno vedevo una generazioni di ragazzini provenienti da ogni parte d’Italia abbandonare il cellulare, i post, i like per immergersi nei vicoli della storia paganese, cercando di capire questo uomo che ha segnato una festa. Il tratto di un uomo di comunità, che da questo centro del salernitano è partito ed è stato compagno di tournè e di avventure è raccontato dalla voce di Isa Danieli, Peppe Barra, Teresa De Sio assieme a Marcello Colasurdo, Eugenio Bennato, Pietra Montecorvino e Cristina Donadio, tratteggiano la personalità umana ed artistica di Franco Tiano, che dal palco alla vita reale era vero, originale, sincero, non perdeva occasione per ricordare, raccontare la “sua Pagani”. Uomo che credeva nei rapporti, al giornalista Alfonso Tramontano Guerritore, che nel post visione del docu-film, racconta che Tiano gli disse che qualsiasi conflitto d’amore o d’amicizia, di odio o di bene si risolve danzando. Occhi negli occhi. Confronto fisico di movenze. Lo chiamavano “L’Africano”, per la carnagione olivastra, artista poliedrico, uomo mistico e pittoresco, persona influente della comunità paganese e più in generale della cultura popolare meridionale del secolo scorso, Franco Tiano ha lasciato un’impronta fortissima della sua figura sulla popolazione locale e su altri rappresentanti del panorama culturale partenopeo moderno, perfettamente descritta nel documentario che racconta la figura complessa ed articolata di Franco Tiano. Un excursus dagli anni settanta ai primi anni 2000, ricoprendo gli studi antropologici ed etnografi realizzati sul mondo delle tradizioni e culture popolari. Immagini di repertorio, tratteggiano il ricordo di Tiano. “Il sangue cammina, non è acqua. Le tradizioni, i patrimoni vanno trasmessi”, racconta una delle voci che tratteggia Tiano e la festa paganese, e non posso che condividere. Ognuno di noi ha bisogno di capire, di trovare le proprie origini e quando nasci nei fazzoletti di terra del Sud, che hanno bellezza, storia, tradizioni, non puoi fare altro che capirle dal di dentro, perché raccontano l’identità delle tue origini. I giovani hanno bisogno di testimoni e se uno di questi si chiama Franco Tiano, lì potranno attingere umanità, ironia, vero legame alle proprie origini, alla propria storia, che si vive e si trasmette anche grazie alle feste popolari, che vanno oltre i social, perché restano così vere anche attualizzandole ai moderni canali sociali, perché la festa “signora del Carmelo” ha tutti gli elementi di educativi . La conoscenza delle proprie radici culturali e del proprio territorio è fondamentale per il processo formativo, perché amplia le conoscenze e gli stimoli per confronti culturali e sociali oggi più che mai attuali. . I festeggiamenti in onore della Vergine del Carmelo è una delle più alte rappresentazioni della cultura popolare, la festa può essere vissuta e raccontata in molti elementi naturali e antropologici, che coinvolgono i cinque sensi, con sensazioni e stati d’animo in continuo mutamento. I profumi del cibo accompagnano per ore ed i più piccoli si affascinano ai nuovi sapori, che conserveranno il ricordo dell’associazione odori-sapori sino all’anno successivo. Un insieme di colori: dal rosso del pomodoro, al giallo dei tagliolini, passando per il verde dei carciofi, che i bambini mescolano ed associano alla festa. La tammurriata, ballo popolare paganese viene tramandato da generazioni, accompagnato dal suono della tammorra, delle nacchere, del patipù e del triccheballacche. Il ritmo musicale è importante nella crescita di un individuo. Con la danza si ha una cooperazione organizzata delle facoltà mentali, emotivi e corporee che si traduce in azioni, la cui esperienza è della massima importanza per lo sviluppo della coordinazione, dell’armonia e anche della personalità. Il canto popolare si sviluppa in una melodia inizialmente imparata: passando di bocca in bocca questa può cambiare, mutando parole e anche melodia. Avvicinare i più piccoli ed i ragazzi al linguaggio poetico popolare favorisce il confronto con il vissuto interiore e con le potenziali capacità fantastiche e creative che ogni persona possiede. Dal cibo alla musica, tutto è magia in onore della Vergine del Carmelo ed attrae i bambini che ne usciranno arricchiti ed entusiasti. Non resta che vivere questa festa con i più piccoli per rivivere insieme a loro la magia dell’incontro con il passato, che rivive nel presente ed è destinato al futuro donandogli un’aurea di gioiosa sacralità nel solco tracciato da Franco Tiano.