Tecnicamente si chiama “messa alla prova”, ma prosaicamente viene definita anche “seconda possibilità” o “seconda chance”: è l’istituto giuridico che sospende il procedimento giudiziario in corso per cercare una strada alternativa alla pena che punti alla riabilitazione dell’imputato. Nata inizialmente per i soli minorenni col dpr 488/1988, nell’aprile del 2014 fu esteso anche ai maggiorenni. E’ come se, di fronte ad un reato, lo Stato proponesse al reo di stringere un patto: la giustizia sospende il procedimento penale, già dalla fase delle indagini preliminari, stabilendo un percorso di recupero in cui l’imputato si impegna a seguire correttamente. Una misura in continua crescita: le richieste di ammissione ad attività socialmente utili sono aumentate del 28% negli ultimi anni: passando dalle 19.187 persone del 2016 alle 23.492 registrate nel 2017. Mentre, la sospensione del processo che consente agli imputati minorenni di svolgere lavori socialmente utili è aumentata del 22%, passando dai 19.554 del 2016 a 23.886 nel 2017. I dati sono stati elaborati dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, registrando un incremento significativo e costante delle richieste di ammissione alla messa alla prova, dimostrando che si sta sviluppando una nuova cultura della pena, che abbatte il rischio di recidiva e i costi del processo. Cinque sono i campi in cui il “messo alla prova” deve svolgere mansioni gratuite: -attività sociali e socio-sanitarie, in associazioni che aiutano a disintossicare da alcool e tossicodipendenze o nell’assistenza ad anziani e disabili; – protezione civile; – patrimonio ambientale; -patrimonio culturale e archivistico; -immobili e servizi pubblici (lavoro in ospedali, case di cura, cura di beni demaniali). Se il soggetto sottoposto alla misura riesce ad arrivare alla fine del percorso concordato ottenendo valutazioni positive da parte della struttura a cui è affidato e dal magistrato di sorveglianza, il processo si conclude senza pena “dimenticando” il reato. Se tutto va come deve andare questo tipo di operazione alla fine crea riscatto personale e sicurezza sociale. Una persona recuperata rende più sicura la comunità intera e sicurezza non è soltanto: lo metto in galera. E’ anche: lo metto nelle condizioni di non fare più quel che ha fatto. La messa alla prova nasconde un fine volto a riparare il danno, eliminando le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal suo reato, risarcendo il danno causato. La giurisprudenza prevede che per i minorenni l’accesso alla seconda possibilità sia data per qualsiasi reato, mentre per i maggiorenni può accadere soltanto se il reato non prevede una pena più alta di quattro anni. La chance è esclusa, nei casi in cui il giudice definisca il reo un “delinquente abituale” o “delinquente per tendenza”. La ratio della messa alla prova si sposa anche nel contrasto alla recidiva, che supera l’85% nel nostro paese, facendo diventare le prigioni “le università del reato” di cui spesso i sociologi parlano. Per questo la messa alla prova è un istituto intelligente: cercare di allontanare dal reato chi mostra di volersi seriamente ravvedere, diventando la strada più razionale da percorrere. Per far sì che la messa alla prova sia effettiva e funzioni e per evitare che essa sia una vuota declamazione di principio è indispensabile costruire “ponti” tra giurisdizione, uffici di esecuzione penale esterna e soggetti della società civile. In questo contribuito si delinea un possibile percorso che non ignora le criticità che si presentano a chi vuol far funzionare le cose. Un programma di messa alla prova può essere di qualunque genere, con un solo obbligo a chiunque lo segua: rendersi utile alla collettività. Nel caso degli adulti i giudici chiedono una sorta di indagine sulla persona agli assistenti sociali dell’ Uepe, sul tipo di reato commesso, la personalità, la famiglia, la sua rete sociale, tracciando insieme alla stessa persona un piano di recupero e vigila sull’andamento del progetto. Gli esempi di percorsi personalizzati sono infiniti. C’è chi guida in stato di ebrezza e segue sedute per alcolisti anonimi, chi commette piccoli furti ed aiuta gli operatori nelle mense dei poveri, chi è indagato per maltrattamenti e si occupa di disabili. Ci sono inquisiti per reati ambientali che si occupano di servizi comunali come spazzare le strade, pulire i canili, tenere in ordine cimiteri, tenere aperti musei e biblioteche nelle ore serali. E’ capitato che un giudice abbia chiesto come ulteriore atto di giustizia riparativa che l’indagato scrivesse una lettera di scuse alla vittima o ai suoi familiari. Se può reggerlo psicolgicamente, capita che gli si chieda invece di parlare in pubblico, soprattutto nelle scuole, della sua esperienza e del suo disvalore delle sue azioni. Ogni messa alla prova viene monitorata con relazioni periodiche: Il contraltare di un insuccesso non è un successo ma molto di più: è un ragazzino o un adulto che, finito il suo periodo di messa alla prova, decide di trasformare quell’esperienza, quale che sia, nel suo percorso di vita. E’ così che la messa alla prova diventa la scommessa sulla quale puntare.
(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)
Ora i padri non potranno più esimersi dal mantenere i propri figli. I genitori, separati o divorziati, che non pagano l’assegno di mantenimento rischiano fino ad un anno di carcere o una multa fino a 1.032 euro. A sancirlo è l’art. 570 bis del codice penale, che entra pienamente in vigore, prevedendo pene nette per i genitori che si sottraggono “agli obblighi di assistenza inerenti la responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge”. La norma abolisce le diverse regole e sentenze contraddittorie che negli anni si sono susseguite, ma non si applica ai conviventi. Il procedimento del neo articolo 570bis è contemplato nella recente riforma sul riordinamento penitenziario, scritta dal governo ormai dimissionario, ma in esso viene specificato che il reato è ascritto ai padri ex coniugi, mentre non è ancora contemplato per i padri ex conviventi. Questo crea un vuoto normativo che dovrà essere colmato a stretto giro. Dunque, scatta la galera per quei genitori inadempienti che ripetutamente si rifiutano di versare i soldi alla ex moglie per contribuire al mantenimento dei figli, anche se maggiorenni. La norma, prevede, che chi non versa tale assegno non andrà subito in prigione, ma questa legge servirà sicuramente da ammonimento e monito. Nel caso, infatti, che il reato dovesse essere perpetrato nel tempo e dopo diverse sentenze, la prospettiva della prigione non sarebbe remota. La legge, conclude, con la previsione di sanzioni per quei padri, separati o divorziati, che sperperano il patrimonio familiare, non garantendo ai figli la necessaria sussistenza o eredità. Anche in questi casi la pena prevista potrebbe essere il carcere o la multa a seconda che oltre il comportamento di un genitori inadempiente, il mantenimento venga versato “a singhiozzo”. Anche in questo caso si parla di casi di ex coppie coniugate: lasciati fuori gli ex non coniugati. La legge fa scalpore ma nasce sulla base del codice penale del 1930 che già puniva con il carcere, seppur sulla carta, coloro che facevano mancare i mezzi di sostentamento al coniuge o ai figli. Poi le modifiche, sino ad oggi, in cui è reato non pagare gli assegni per i figli in genere. Discutibile su molti aspetti: ad esempio, non versare l’assegno per il figlio maggiorenne sarà punito solo se i genitori sono divorziati ma non sei genitori sono separati o addirittura conviventi. Potrebbe finire in tribunale anche chi è puntuale con l’assegno mensile ma non ha rimborsato le spese per i libri o per le vacanze dei figli. Incongruenze che fanno indispettire i tanti padri che ogni giorno si scontrano oltre che con l’astio dell’ex compagna anche con situazioni di grande stress emotivo ed economico. Molti padri di oggi perdono tutto, non riescono ad arrivare a fine mese, spesso sono ridotti alla miseria e non possono neppure detrarre dalla dichiarazione dei redditi l’assegno di mantenimento per i figli. Così può capitare che finiscano in strada, magari a dormire in macchina o in situazioni indecorose. Il nuovo articolo del codice penale di certo non va incontro ai padri separati, anzi, sembra un’ulteriore spada di Damocle per quei padri desiderosi di esserlo ma che con la separazione hanno incontrato la povertà. Intorno, però al mondo dei padri separati in difficoltà, che sembrano non esserci, -ma sono un’ampia fetta di popolazione italiana, basta vedere i dati dell’Istat relativi alle separazioni e ai divorzi
Nel sole tiepido di primavera, tra i fiori di pesco, nella città di Pagani (Salerno) spira il vento della tradizione, che sa di festa e di popolarità. Processioni, canti, balli e gastronomia, si sposano in un perfetto connubio che in un rito ormai consolidato ma mai noioso, si vive nell’ottava di Pasqua nella cittadina dell’agro nocerino sarnese, celebrando e vivendo un vero e proprio rito collettivo, che si tramanda di generazione in generazione, con semplicità e convivialità, lasciando di anno in anno nel solco della fede senza fiato i tanti fedeli: la festa della Madonna del Carmelo, detta delle Galline. Giorni magici scanditi da riti antichi e storici, ma mai banali, leggende che raccontano un popolo e la sua storia, odori e sapori che si riscoprono. Giorni intensi che iniziano il venerdì in albis con l’apertura suggestiva e sentita delle porte del Santuario, che sanciscono il legame di fede che la città del Santo Patrono Sant’Alfonso ha con la Vergine del Carmelo, per concludersi la domenica con la processione che abbraccia la città: dal centro alla periferia, sino a notte, mentre nell’aria l’odore dei carciofi si fa largo, ed il ritmo delle nacchere e delle tammorre accompagna la fede paganese. Da venerdì 06 aprile a domenica 08 aprile, a Pagani, si festeggerà l’edizione 2018 della tanto amata Festa della Madonna delle Galline ed il mio occhio da assistente sociale, cade sugli elementi sociali ed educativi che questa festa porta con sé. Le feste popolari hanno nel loro animo educazione ed importanza sociale rilevante ed è proprio su questo che vorrei soffermarmi. La conoscenza delle proprie radici culturali e del proprio territorio è ritenuto fondamentale in molti programmi di studio della provincia, un elemento importante per il processo formativo, che amplia le conoscenze e gli stimoli per confronti culturali e sociali oggi più che mai attuali. I festeggiamenti in onore della Vergine del Carmelo è una delle più alte rappresentazioni della cultura popolare, la festa può essere vissuta e raccontata in molti elementi naturali e antropologici, che coinvolgono i cinque sensi, con sensazioni e stati d’animo in continuo mutamento. I profumi del cibo accompagnano per ore ed i più piccoli si affascinano ai nuovi sapori, che conserveranno il ricordo dell’associazione odori-sapori sino all’anno successivo. Un insieme di colori: dal rosso del pomodoro, al giallo dei tagliolini, passando per il verde dei carciofi, che i bambini mescolano ed associano alla festa. La tammurriata, ballo popolare paganese viene tramandato da generazioni, accompagnato dal suono della tammorra, delle nacchere, del patipù e del triccheballacche. Il ritmo musicale è importante nella crescita di un individuo. Con la danza si ha una cooperazione organizzata delle facoltà mentali, emotivi e corporee che si traduce in azioni, la cui esperienza è della massima importanza per lo sviluppo della coordinazione, dell’armonia e anche della personalità. Il canto popolare si sviluppa in una melodia inizialmente imparata: passando di bocca in bocca questa può cambiare, mutando parole e anche melodia. Non un autore unico, ma una creazione collettiva, diventando popolare proprio perché condivisa nella sua modifica. In questo modo non esisterà un’unica versione originale ma tante varianti diverse. Avvicinare i più piccoli ed i ragazzi al linguaggio poetico popolare favorisce il confronto con il vissuto interiore e con le potenziali capacità fantastiche e creative che ogni persona possiede. Dal cibo alla musica, tutto è magia in onore della Vergine del Carmelo ed attrae i bambini che ne usciranno arricchiti ed entusiasti. Non resta che vivere questa festa con i più piccoli per rivivere insieme a loro la magia dell’incontro con il passato, che rivive nel presente ed è destinato al futuro donandogli un’aurea di gioiosa sacralità.
Sono quasi 900 mila, nel solo primo trimestre del 2018, le persone che beneficiano delle misure di contrasto alla povertà, e di queste sette su dieci risiedono al Sud Italia. Campania in testa, seguita da Sicilia e Calabria. E’ quanto emerso dall’Osservatorio statistico sul Reddito di Inclusione, presentato nei giorni scorsi dall’Inps e dal Ministero del Lavoro, e nel primo trimestre alle famiglie in difficoltà economica sono arrivati i primi pagamenti, per un contributo mensile di 297 euro che varia da regione a regione. Si passa da un minimo di 225 euro per la Valle d’Aosta fino ai 328 per la Campania, le regioni del Sud hanno un valore medio più alto di quelle del nord e del centro. I dati e le famiglie si coniugano poi alle 476 mila persone del Sia, avviato nel 2017. Per le famiglie in difficoltà il Rei, è uno dei principali sostegni economici ed infatti non si arresta la corsa ai servizi sociali per accedere al reddito di inclusione. E dal primo luglio la platea sia per nuclei che per persone aumenterà, visto che resterà in piedi il solo valore dell’Isee, mentre le ulteriori accezioni ad oggi previste, come nuclei familiari con persone in stato di handicap, persone ultra cinquantenni, verranno meno. E se 900 mila persone beneficiano di un sostegno che dovrebbe andare oltre all’aspetto economico ed essere accompagnato nei prossimi mesi da un progetto di reinserimento sociale e lavorativo dai servizi sociali dei comuni, l’Italia si attesta ancora il primo paese europeo per numero di cittadini in condizioni di deprivazione. Sono 10,5 milioni le persone in stato di indigenza. La classifica Eurostat vede l’Italia davanti a Romania e Francia. Sono considerate indigenti le persone che non si possono permettere almeno cinque cose necessarie per una vita dignitosa, come un pasto proteico ogni due giorni, abiti decorsi, due paia di scarpe, una settimana di vacanza all’anno, una connessione a internet. Negli ultimi dieci anni i poveri assoluti, chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali, sono triplicati nel Sud Italia. Ci sono i giovani che hanno superato gli anziani e gli stranieri, ma soprattutto le famiglie con due o più figli: la crisi economica ha ridisegnato la mappa dell’indigenza tra le fasce sociali. Dato preoccupante sono i minori: un minore su dieci vive in una situazione di grave indigenza: 1.31.000 per l’esattezza. La fotografica è stata scattata dal rapporto Caritas ed è drammatica. Aumentano, infatti, gli italiani che si rivolgono ai centri d’ascolto della Caritas. Disoccupati, precari e pensionati: la povertà in Italia cambia volto. E soprattutto continua ad aumentare. C’è l’impiegato che ha perso il lavoro e l’imprenditore con l’azienda fallita. C’è il ragioniere e l’avvocato. C’è la pensionata, l’operaio licenziato e l’esodato. Alle mense italiane della Caritas ci sono sempre più italiani. Non solo senzatetto, clochard e sbandati. L’esercito dei nuovi poveri è quello della gente comune, delle persone qualunque, uomini e donne della porta accanto, padri e madri, lavoratori e lavoratrici senza più lavoro, stroncati dalla crisi e dal precariato, finiti sul baratro da un giorno all’altro. Tra i tavoli delle mense italiane si ascoltano le storie di vita quotidiana, storie che potrebbero accadere ad ognuno di noi. C’è chi si ritrova in bilico tra la perdita del lavoro e l’attesa della pensione, è quello che oggi si chiama esodato. Si ritrovano dopo il ridimensionamento dell’azienda a far fronte all’affitto da pagare, alle spese, troppe per poter saldare senza un lavoro e così si ritrovano con la loro dignità tra i tavoli della Caritas e cercano anche ospitalità per la notte. Gli italiani alla Caritas non smettono di credere in un futuro migliore. Tenaci e non arrendevoli, nonostante tutto, seppur covano dentro rabbia contro il mondo del lavoro e contro la politica. Ma nelle mense trovano spazio, ascolto prima ancora che un pasto, gli operatori infatti riescono a supportare ed incoraggiare quanti prendono parte alla mensa, che resta l’unica realtà a cui potersi rivolgere per chi è in difficoltà. Ricerca della propria dignità, ricominciare per se stessi e per la propria famiglia, cercando autonomia ed autostima, è questo quello che emerge nell’ascoltare chi oggi fatica a reinserirsi nel tessuto lavorativo e fa i conti con lo stato di indigenza, ed è per questo che il Rei, potrà funzionare “solo” in parte, seppur nasce non solo come misura economica fine a se stessa, in quanto prevede il ruolo centrale degli assistenti sociali nel disegnare un progetto comune con l’utente per il reinserimento sociale, eppure però nei piccoli comuni ci si scontra con l’aumento delle domande, la carenza di personale, ed un progetto assistenziale difficile da disegnare senza servizi e senza equipe, infatti, i primi risultati si basano proprio sul solo aspetto economico, mentre l’aspetto sociale e dignitoso degli utenti tarda a decollare e ad arrivare, rischiando di restare un solo aiuto economico che ben presto terminerà senza lasciare autonomia e capacità di reazione nell’utente in stato di difficoltà.
Case, ville, ricchezza ostentata, nei sotterranei o in stanze nascoste: i luoghi dove i boss convocavano gli imprenditori che tenevano sotto scacco. Beni finiti dopo gli arresti nelle mani dello Stato. Un passaggio di proprietà da “cosa loro” a “cosa nostra” . Sono quasi 18 mila in Italia, spesso si confondono in abitazioni comuni, i beni confiscati alla criminalità organizzata, oggi divenuti avamposti di legalità, grazie alla legge 109 del 1996, sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle organizzazioni criminali. Una svolta epocale nel contrasto alle mafie nel nostro Paese. Un sogno divenuto realtà, grazie all’impegno pagato con la vita dall’allora segretario regionale del Pci Pio La Torre, e dell’organizzazione fondata da don Luigi Ciotti, di Libera. Oggi, fa sapere Libera, sono oltre cinquecento le realtà che l’organizzazione gestisce in quelle terre e in quegli immobili, con l’onere non indifferente di trasformarli in luoghi di lavoro, di formazione, di cultura, di accoglienza e servizio alle persone deboli. La nuova vita dei beni confiscati alla mafia passa attraverso il terzo settore, infatti, l’accordo siglato tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, l’Agenzia del Demanio e l’Associazione Nazionale Comuni Italiani per destinare agli enti del Terzo settore i beni immobiliari pubblici inutilizzati e quelli confiscati alla criminalità organizzata. L’accordo firmato negli ultimi mesi del 2017, prevede che gli enti destinatari devono predisporre progetti destinati alla riqualificazione di aree degradate, al miglioramento del contesto urbano e sociale, all’incentivazione di iniziative di legalità e all’inclusione sociale dei soggetti svantaggiati. L’immobile potrà essere restaurato e utilizzato per un’attività di interesse generale. Le donazioni e le erogazioni liberali raccolte per coprire i costi di tali operazioni godono, inoltre, di un incentivo fiscale del 65% per le persone fisiche e del 50% per le persone giuridiche. Così i beni dello Stato, inutilizzati, circa un migliaio di immobili per una superficie di oltre 600 mila quadrati a cui si aggiunge in alcuni casi tutto il patrimonio di beni pubblici di proprietà degli enti locali e degli altri soggetti pubblici, diventa avamposto di legalità e ritorna a vivere nel riutilizzo sociale. Da nord a sud gli esempi sono tanti e belli. A Pagani, nel salernitano, quel bene confiscato al boss Mario Pepe, oggi rivive diventando luogo di aggregazione per le persone con autismo, grazie all’associazione “Autismo fuori dal Silenzio”. Confiscato alla criminalità organizzata e assegnato nel 2016 per sette anni, tramite bando comunale, all’associazione che di quell’immobile ne ha fatto la sua sede, creando un centro di servizi e segretariato rivolto a bambini e giovani con autismo e alle loro famiglie, che si caratterizzerà anche come presidio per consulenze specialistiche e attività di supporto psicologico ai genitori. E nella città di Pagani, sembra soffiare il vento della legalità e del riutilizzo, infatti, un altro appartamento confiscato allo stesso boss Mario Pepe, è stato destinato con gara pubblica ad un’altra associazione cittadina, che in queste settimane ha iniziato i lavori di ristrutturazione per dare nuova vita al bene. Dall’illegalità alla solidarietà così i beni sottratti al potere criminale diventano avamposti di legalità tramite bandi pubblici e idee che vengono messe in pratica, ridando vita a case, palazzi, appartamenti che hanno nascosto segreti per troppi anni e che sanno di puzzo di compromesso e di illegalità ma che oggi diventano speranza e riscatto, unendo il sociale e la solidarietà. Palestre di democrazia, occasioni di lavoro pulito, vero, di accoglienza per le persone fragili e in difficoltà, di formazione e di impegno per molti giovani e professionisti del settore sociale. Segni di speranza in territori dove il crimine e gli affari criminali hanno fatto da padrona, dimostrazioni di ribellione alle mafie da comuni cittadini che partecipano all’assegnazione del bene per darne nuova vita. Segno di una politica, di un mondo cattolico ma anche laico, che insieme ad istituzioni, associazioni, amministratori si assume la responsabilità del bene comune, perché quei beni sono di tutti noi “sono cosa nostra” ed è bene che i cittadini, le scuole, i più giovani lo sappiano, che i beni aprano le porte per accogliere e raccontare i risultati raggiunti ma anche evidenziare i nodi e le contraddizioni che ci sono e vanno risolte, ma anche l’infinita bellezza che assume il bene che rivive nel fresco profumo della legalità nel suo secondo tempo di vita.
Un uomo, Giovanni Ciacci, famoso stylist noto come Giò Giò, concorrente di “Ballando con le stelle”, il reality danzante di Rai Uno, che balla al fianco di un altro uomo, il ballerino Raimondo Todaro. La scelta, nuova rispetto al passato, di questa edizione di Ballando, di comporre una delle coppie in gara con due uomini, non ha mancato di suscitare curiosità e pure alcune critiche. Ma gli animi si scaldano quando uno dei giudici di “Ballando con le stelle”, Ivan Zazzaroni, non vota la coppia Ciacci-Todaro, perché considerata “fuori contesto”: “Non riesco a valutare, tant’è che forse non voto neanche”, ha dichiarato il giudice. Prima arriva la bordata di fischi dal pubblico, poi il tentativo della conduttrice Milly Carlucci di placare gli animi chiedendo spiegazioni a Zazzaroni. Dopo i fischi in diretta sono arrivate le reazioni sui social, che hanno subito twittato di omofobia, alla quale si è accodato anche il portavoce di Gay Center, Fabrizio Marrazzo, che ha parlato di “omofobia di bassa lega in televisione”. Picchiati, insultati, aggrediti spesso sotto gli occhi indifferenti dei passanti, si scrive omofobia e si legge come chiusura ai diritti e al riconoscimento sessuale della comunità lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali). Omofobia che si mescola al bullismo tra i più giovani, sfociando in violenze inaudite. Mentre l’Europa e gli Stati Uniti hanno fatto dei matrimoni omosessuali la loro apertura mentale, in Italia la legge sulle unioni civili, tarda a decollare, mentre la legge contro l’omofobia ancora si attende. Segno solo del ritardo della politica o più in generale di una cultura diffusa ancora impregnata di pregiudizi verso gay, lesbiche, bisessuali e transessuali? La risposta è amara, la discriminazione sociale è dura a morire, l’Italia è ancora un paese culturalmente omofobo. Il problema riguarda più il sud e la provincia italiana. Ci si divide così tra chi ha paura di dichiararsi alla società, per una mentalità pronta a tacciare e commentare, e tra chi invece ha paura di scontrarsi col problema dei diritti, delle leggi che ancora mancano. Le priorità sembrano due: una legge contro l’omofobia, dimenticata in Senato da quattro anni, dove è ancora ferma ed il riconoscimento reale ed effettivo delle unioni civili. Riforme bloccate e legate ancora ad un certo cattolicesimo che non apre gli occhi, non si rende conto e non accoglie. Ma esiste una comunità arcobaleno che indipendentemente dal sesso vive nella società e abbraccia tutte le aree sociali: famiglia, anziani, disabilità e con loro si affronta quotidianamente il lavoro sociale e la questione di genere. Con la comunità lgbt tutti noi abbiamo dovuto imparare a fare i conti col linguaggio che cambia: coming out: letteralmente, uscire fuori dall’armadio, dichiarando ciò che si è. Il primo passo è dichiararlo a se stessi ed accettarlo, ciò avviene con i propri tempi, e può avvenire in ogni momento della vita, in contesti e momenti differenti. Diversamente l’outing, che consiste nel rivelare l’orientamento sessuale, la propria identità di genere ad un’altra persona. Si tratta di dichiarazioni che comportano paure e forme di stress. La più diffusa è la “minority stress”, l’insieme di disagi psicologici causati da una condizione di minorazione stigmatizzata. Per cui si vivono tre dimensioni: omofobia interiorizzata: si interiorizza l’eteronormalità, vivendo male il proprio orientamento sessuale/identità di genere, sino al rifiutarlo; uno stigma percepito: cioè una percezione del rifiuto sociale. Più è la percezione e più sarà la vigilanza ed ricorso a strategie difensive; la terza dimensione riguarda l’esperienza vissuta, la violenza psicologica, fisica o verbale. Naturalmente molto dipende dal contesto, è necessario un radicale cambio di mentalità nelle nuove generazioni, nonché una rappresentazione meno banalizzante dei media. Ma in un contesto di profondo cambiamento culturale che spinge a rivedere il nostro linguaggio e la nostra mentalità, il sociale continua a girare e la comunità lgbt continua ad evolversi, a maturare e ad invecchiare incontrando problematiche di salute, di sostegno sociale, sicurezza sociale, autosufficienza fisica e mentale. Incontrando questioni specifiche, dalla svalutazione dell’omosessualità nei luoghi per gli anziani. In molti casi si tratta di persone che spesso non hanno discendenti biologici che possono prendersi cura di loro, ciò ha delle ripercussioni psicologiche e ci si scontra anche con servizi ed istituzioni che ancora non sono pronte alla comunità arcobaleno e alle loro esigenze, a questo si aggiunge anche il contesto in cui sono cresciuti ed invecchiate: molte persone lgbt, si sono dovuti scontrare con matrimoni eterosessuali, o con concezioni che legavano gli omosessuali ai malati di mente. Il tutto si amplifica in una società moderna sorda alle loro esigenze, seppur qualcosa sembra cambiare, infatti, da qualche anno sono nate delle co-housing per persone lgbt, ma ciò comporta ancora una volta, anche nell’ultima fase della vita: la vecchiaia, l’esclusione sociale, un distinguo che ancora una volta viene fatta seppur forse con più diplomazia. Allora la domanda di fondo è: saremo davvero un paese socialmente vero e arcobaleno, riconoscendo le diversità facendone una ricchezza?
Più misure alternative al carcere esclusi i reati più gravi. Questo il cardine della riforma dell’ordinamento penitenziario, approvata in Consiglio dei Ministri. Il sovraffollamento è il senso delle nuove misure, aumenta il rischio che la pena non sia rieducativa, da qui il potenziamento della rieducazione come del reinserimento sociale. Stabilite poi maggiori tutele per i diritti dei detenuti in termini di salute, identità di genere, incolumità personale, oltre ad una nuova disciplina per i colloqui con i familiari e per l’uso delle tecnologie informatiche all’interno del carcere. Il testo dovrà ora tornare alle Commissioni parlamentari per l’ultimo vaglio, ma, intanto non è esente dalla polemica politica. All’attacco il centro destra: da Fratelli d’Italia, alla Lega, che promettono battaglia. “Non è un salva ladri, né uno svuota carceri” ha precisato il guardasigilli Orlando, che ha spiegato che si dovrà valutare il comportamento del detenuto e ammetterlo a misure alternative al carcere, che prevedono percorsi di lavoro e di servizio sociale, che gli consentono di restituire qualcosa di quello che ha tolto alla società e di non essere recidivo. Misure che mirano ad abbattere il muro delle recidive, che resta il più alto in Europa, seppur in Italia si spende quasi 3 miliardi l’anno per il trattamento dei detenuti, così come confermato da Orlando. L’obiettivo principale della riforma è rendere attuale l’ordinamento penitenziario previsto dalla legge di riforma penitenziaria 354/1975, per adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza della Corte Costituzionale, Corte di Cassazione e delle Corti europee. Quindi con soluzioni che non indeboliscano la sicurezza della collettività, infatti, non si estende la possibilità ai detenuti in regime di 41bis per reati di mafia e per i reati di terrorismo, ma si riporti al centro del sistema la finalità rieducativa della pena indicata anche dall’articolo 27 della Costituzione, ma anche facilitare la gestione del settore penitenziario e a diminuire il sovraffollamento. Un passo legislativo sui temi delicati come la salute psichica, l’accesso alle misure alternative, la vita interna alle carceri, i rapporti con l’esterno ed il sistema disciplinare. Carceri e condizioni disumane, da anni il dibattito infuoca il mondo politico e si pone al centro dell’attenzione. Dopo una flessione nel numero dei detenuti seguita dalla sentenza Torreggiani, con la quale la Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, negli ultimi tre anni si è assistito ad un aumento costante delle presenze in carcere. La riforma dell’ordinamento penitenziario, dovrebbe dare l’opportunità di tornare a far calare gli attuali numeri con ripercussioni positive sulla vita in carcere. Le questioni attualmente aperte, che riguardano le carceri italiane, che proprio a causa del sovraffollamento, non riescono a trovare soluzioni. Tra questi ad esempio la necessità di ampie ristrutturazioni degli istituti. In più della metà delle strutture ci sono celle senza doccia ed in molte celle manca l’ acqua calda, in violazione di quanto prevede la legge. Sovraffollamento e aumento dei suicidi si presentano così, oggi, gli istituti di pena italiani, destinati ad accogliere soggetti che trasgredendo le prescrizioni di legge, sono sanzionati con la pena. Condizioni disumane e poche opportunità di recupero, così come è nell’intento della riforma del ’75: la pena deve avere caratteri di rieducazione e reinserimento educativo e sociale. Una realtà, quella del sistema penitenziario rinnegata ed oscura per troppi anni, sino ad oggi, in questo colpo di coda del governo, che propone misure alternative che reinseriscano nella società con dignità e rispetto del detenuto e della comunità stessa, restando fermo nell’intento che spetta al magistrato di sorveglianza, così come detta anche il diritto penitenziario, ogni decisione in merito, valutando ogni singolo caso. La proposta di modifica dell’ordinamento penitenziario dalla sua ha un’apertura umana, dignitosa, ma restano ancora diritti come i minori e la sessualità da affrontare. L’auspicio è che la grossa maggioranza, fresca di vincitori, guardi anche al sistema carcerario, perché ci sono luoghi come le celle, dai quali ci si aspetta il loro regno con l’orecchio al suolo e le braccia intorno alla testa, cercando di emergere da quel braccio carcerario che oggi li tieni lì.
Se si ha un segreto ingombrante e pesante in cui ogni giorno fare i conti è difficile raccontarlo. Soprattutto se si tratta di un bambino o di una donna in fuga dalla violenza. Ma se ci sono dei luoghi protetti, accoglienti, con personale preparato a fronteggiare le situazioni, possono dare più coraggio, creando un ambiente sicuro e protetto. Un ufficio pubblico. Una stanza della polizia municipale di Napoli. Ma una stanza speciale, ribattezzata “la stanza dell’ascolto”. Un luogo protetto e accogliente negli uffici dell’Unità operativa Tutela minori ed emergenze sociali della polizia municipale del Comune di Napoli. Un nuovo e ri-funzionalizzato spazio protetto deputato ad accogliere donne e minori vittime di violenza e abusi, che prima venivano ascoltate nelle in stanze fredde e fatiscenti, in cui i bambini e le vittime di violenza confessavano tra i denti e le lacrime i loro terribili segreti, la paura, il dolore, gli operatori erano costretti a far ripetere tutto, perché dovevano registrare con i loro cellulari la “prova” da fornire al magistrato. E così, in piazza Garibaldi, a pochi passi dalla stazione è nata “la stanza dell’ascolto”, una stanza protetta, con colori chiari, i fogli da disegno e i giochi, una stanza accogliente dove potersi fermare, dove trovare il coraggio di chiedere aiuto. La stanza ha anche un pannello di controllo dietro uno specchio per registrare con discrezione i colloqui. Due gli spazi attrezzati: la stanza in cui si effettua il colloquio senza essere visto. La control room, inoltre, è dotata di avanzate tecnologie che permettono la registrazione video e audio del colloquio tra la vittima ed il personale dell’Unità operativa. Prima dell’inizio di ogni colloqui, la vittima di violenze, come prevede anche la normativa, viene informata che l’incontro sarà registrato. Non uno sportello, ma un luogo attrezzato all’ascolto delle vittime di violenze intercettate dai servizi. La cura del luogo è un elemento fondamentale perché consente alle donne di aprirsi e raccontarsi dove ci sono strumenti di cura che incitano ad aprirsi più facilmente. Il progetto nasce dall’assessore alla sicurezza urbana, Alessandra Clemente, la giovane assessore del comune, dopo aver ascoltato dai vigili urbani della città in che modo venivano ascoltate le donne, ha sentito il bisogno di fare qualcosa, di creare un luogo in cui si sentissero protette. Nella stanza dell’ascolto si mettono insieme accoglienza, professionalità, umanità e la risposta ad un’esigenza di giustizia: perché la stanza raccoglie testimonianze che potrebbero diventare decisive per i processi. Dinanzi l’ingresso degli uffici, sul marciapiede è stata posta una panchina rossa, simbolo della lotta contro la violenza sulle donne.
L’otto marzo, Festa della Donna in tutte le sue sfumature, torna dalla scena politica, a quella culturale, passando per la scena artistica. La festa profumata di mimose è diventata, complice di movimenti di empowerment femminile per rafforzare il ruolo della donna nella società, una realtà uniforme ma ricca di significati. La scienza dice che altro che parità, l’8 marzo sarebbe il caso di festeggiare il primato femminile in diversi campi e settori della vita sociale e lavorativa: secondo la scienza le donne sono multitasking, sorridono di più e sanno degustare meglio il vino. Non solo: felicemente solitari e orgogliosamente nerd, sono almeno dieci i settori che vedono le donne primeggiare. Se la scienza motiva il nostro genere, la ricorrenza ci riporta alla realtà della disuguaglianza e della violenza di genere. E c’è chi in 70 cortei scenderà in piazza contro la precarietà e le discriminazioni. Contro i ruoli imposti nella società fin da piccole, contro i ricatti sul lavoro che generano molestie e violenze, per un reddito di autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare universale. Dalle virago in carriera anni ’80 alle moderne mamme “pancine”, dalle edoniste alle rivoluzionarie, che combattono l’Isis ed il consumismo, dalle spregiudicate single metropolitane alle tante spose e figlie prigioniere dei vincoli familiari: e così dalle nobildonne alle single metropolitane, negli anni, la storia ha costruito modelli per le donne. Ma ogni giorno le donne giocano una sfida, ed una di queste avviene nel sociale, mostrando il volto di un’Italia in cui le donne non sono costrette alle quote rosa ma sono parte integrante e dirigente di aziende e cooperative sociali. Da Nord a Sud, disegnando il volto di un Paese che si è “disabituato a volere”. Si unisce così il Nord con la tradizione delle cooperative sociali e il coraggio dell’impresa rosa del Sud, specie nel napoletano, con la determinazione dei centri antiviolenza. Un popolo femminile operoso e silenzioso che tesse la rete del welfare italiano. Femminile plurale per la nuova economica e così si tesse la tela della cooperazione sociale nelle mani delle donne. Un mondo esattamente contrario a quello che siamo abituati a vedere tutti i giorni. Non è solo quello del 50% di disoccupazione femminile, non è solo quello costretto alle quote rosa per ottenere un minimo di rappresentanza, non è solo quello della condizione salariale discriminante né quello – vergognoso – del 9% nei ruoli dirigenti in rosa. E’ un paese in cui il lavoro si coniuga con i tempi e i diritti di genere: nelle cooperative sociali c’è il 70% di occupazione femminile e il 50% di donne nei consigli di amministrazione, senza dimenticare che per “Legacoopsociali” sono le donne presidente e vicepresidente nazionali. Una pagina femminile e sociale che si coniuga perfettamente con l’esempio di decine di donne che hanno fatto la storia del lavoro sociale. Da Maria Gaetana Agnesi a Gisela Konopka passando per il premio nobel Jane Addams. Donne che hanno scritto pagine importanti nel settore del welfare a livello nazionale ed internazionale seguendo sempre un’ideale di giustizia, rispetto e uguaglianza. Esempio che non possono restare un bel proclama e la storia moderna ci mostra l’esempio di cooperative divenute “ascensore sociale” per le donne, creando una rete femminile in grado di superare le difficoltà e generare nuove opportunità di lavoro e ricchezza, non solo nel nostro paese ma anche in molti paesi in via di sviluppo. Confcooperative in prossimità dell’8 marzo ha snocciolato alcuni numeri relativi all’occupazione femminile che registra nel settore il 61% degli occupati nelle sue imprese, dove la governance femminile si attesta al 26%. I dati mostrano come in Italia le cooperative sono uno dei pochissimi ascensori sociali per le donne ed i giovani. Sguardo puntato anche sulle cooperative nelle zone in via di sviluppo che sono impegnate a trasferire knowhow dei modelli produttivi per innescare sviluppo sul territorio, rendendo protagoniste le donne delle comunità locali. L’obiettivo è raggiungere l’uguaglianza di genere e favorire l’empowerment di ragazze e donne come previsto da Agenda 2030, perché non rappresenta solo un diritto umano fondamentale, ma la condizione necessaria per un modello di sviluppo di cui tutti potranno beneficiare e le donne, specialmente in contesti di povertà, sono quelle che conferiscono la maggior parte della forza lavoro, sono le più affidabili nelle restituzioni dei crediti e sono quelle che giocano un ruolo chiave nei processi di inclusone e di integrazione nei territori. Insomma, un potere femminile infinito anche in un campo come il sociale che ha bisogno di sorrisi, energia e tenacia, che sembrerebbe provenire proprio dalle donne.
Si è tolto la vita dopo aver ucciso le due figlie di 8 e 14 anni il carabiniere che a Cisterna di Latina, pochi giorni fa si era barricato in casa per nove ore dopo aver sparato alla moglie. La donna, dalla quale il militare si stava separando, è ricoverata in ospedale, le sue condizioni migliorano, ma dovrà sopravvivere alla perdita più grande che una madre possa vivere: la morte della sue due figlie per mano dell’ex marito, diventato la sua più grande paura, come si legge nei verbali di denuncia della donna, sino al mattino in cui è diventato il sicario che l’ha colpita ed ha ucciso poi le loro figlie. Uomini che minacciano le donne, rabbia e rancore che in loro cova alla fine di una storia che non riescono ad accettare, e spesso i figli diventano arma di bersaglio. Si chiama “figlicidio”, ed è una delle forme più terribili di femminicidio, diventando l’arma più potente che un uomo ha nel far del male ad una donna, uccidendo il proprio figlio. Un numero in crescita seppur ancora incerto, tanto che se ne chiede di riferirne in Commissione Parlamentare per l’Autority dell’Infanzia. Colti nel sonno, approfittando del loro assoluto senso di sicurezza, si consuma così l’infanticidio la vendetta trasversale del femminicidio: colpiscono i figli, indifesi e deboli, per fare del male alla madre. Dietro l’infanticidio si cela un messaggio, i padri che uccidono i figli per colpire le madri, vogliono dimostrare di essere padroni della famiglia, per punire compagne che hanno pensato di lasciarli. Non un raptus di follia, ma un omicidio premeditato con violenza, scegliendo le vittime più deboli: i bambini. I figli sono visti come il riflesso della madre, come punto debole anche delle donne più forti, come vittime predestinate che scontano le colpe delle donne in una sorta di rivendicazione maschilista della sovranità in famiglia. I padri sanno che i figli sono gli elementi deboli, più indifesi, sanno, che colpendo loro, colpiscono anche la madre che è poi la vera vittima degli omicidi. Non una follia improvvisa, ma è un male omicida che matura nel tempo. L’identikit che viene tracciato dagli psichiatri che assicurano che non si tratta mai di un fulmine a ciel sereno e tendere a giustificare non aiuta nemmeno a cogliere i segnali di un eventuale pericolo. Nella maggior parte dei casi ci si trova di fronte ad uomini tra i 35 ed i 50 anni che usano armi da taglio o pistole. Le statistiche tracciate dai criminologi mettono in relazione l’aumento dei casi con il crescere di separazioni e divorzi. Come per il femminicidio, l’infanticidio è la risposta violenta e brutale di quegli uomini che non sanno accettare la separazione, che vedono il divorzio come una minaccia per la loro mascolinità e che uccidono per riprendere il controllo. Alla base c’è un’idea distorta della famiglia vista come mezzo di affermazione e di potere e non come nucleo familiare condiviso: i figli e la moglie sono trofei da sfoggiare e quando la realtà bussa alla porta c’è solo la violenza. In psichiatria si tende a chiamarlo “feudalesimo affettivo” per descrivere questa concezione di famiglia. Padri e mariti che considerano figli e mogli come una proprietà, uomini malvagi che comunque non possono non aver lanciato dei segnali. Non ci sono giustificazioni per questi assassini, non è la famiglia, la compagna, i figli a togliere spazio e libertà: sono loro a togliere la vita in nome di un maschilismo retrogrado e stupido. Restano delle donne e delle madri che nonostante il coraggio, la forza della denuncia e della ribellione, devono fare i conti col dolore più grande: la perdita di un figlio, amplificata dall’assassino che è stato il loro amore nella vita. Donne che chiedono aiuto e tutele, sostegno e rete sociale che sia reale e veritiera, che ci sa certezza e non insicurezza. Donne che non vanno lasciate sole già dall’instante in cui denunciano il loro ex compagno, vanno supportate e protette: dalla legge sino ai servizi, ma resta solo al momento un bel proclama che non smetteremo mai di scrivere e di urlare, sperando che di “tragedie annunciate” non ce ne siano più.