La Corte di Cassazione “spegne il sole” sulla sindrome di alienazione parentale (Pas), definendo “pseudoscientifica” la controversa teoria che descrive l’allontanamento di un figlio da un genitore ad opera dell’altro. La Cassazione, con ordinanza 286/2022, ha emesso un’importante ordinanza sulla sindrome Pas, una teoria molto controversa che descriverebbe la condizione psicologica di minori che hanno rifiutato uno dei due genitori a causa dell’incitamento intenzionale portato avanti dall’altro. La Corte ha stabilito che il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale “e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo.”La sentenza, accoglie il ricorso di una madre, che ha atteso nove anni, tra scioperi della fame, sit-in, e la paura che le portassero via il bambino: le forze dell’ordine e gli assistenti sociali erano già intervenuti tre volte, senza riuscirci. Finché lo scorso marzo, la Cassazione ha annullato la decisione del Tribunale per i Minorenni di decaderle dalla responsabilità genitoriale. Non solo: in modo definitivo la Suprema Corte ha ribadito che il concetto di “alienazione parentale”, suggerita anche attraverso altri sinonimi come “madre malevola, ostativa, simbiotica”, dovrà essere bandito, per sempre, dai tribunali italiani. Una decisione storica, che per altro non è la prima volta, già nel maggio dello scorso anno, con ordinanza n. 13217/21, la Corte di Cassazione aveva riconosciuto l’infondatezza della Pas, ma quest’ultima ordinanza ha aggiunto un punto fondamentale: d’ora in poi nelle cause per l’affidamento, i minori dovranno essere ascoltati dai giudici, non dai periti. I giudici hanno stabilito che non può essere garantita la bigenitorialità a tutti i costi, ma va tenuto conto innanzitutto dell’interesse del bambino. Infine, si sono espressi anche sull’uso della forza fisica usata per allontanare dal luogo di residenza i bambini, dichiarando che ogni forma di coercizione sui minori è fuori dallo Stato di diritto. La sindrome di alienazione genitoriale o parentale (Pas, dalla forma inglese) è un concetto che venne introdotto per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner, e descritto come una dinamica psicologica disfunzionale che si attiva nei figli minori coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori. La sindrome indica un disagio psichico vissuto dai figli in contesti di separazioni conflittuali a causa del plagio di uno dei due genitori. E’ una teoria molto controversa che divide il mondo giuridico e scientifico, tanto è vero che non è stata mai riconosciuta come sindrome dai manuali internazionali ma molto diffusa nelle aule di giustizia italiane e nei procedimenti sull’affidamento dei figli minori. Utilizzata dalla psicologia forense nelle Consulenze tecniche d’ufficio (ctu), consulenti di cui si avvale il giudice per valutare la capacità di un genitore di prendersi cura della prole. Un giudizio spesso senza appello. Sono ben 150.000 i bambini coinvolti ogni anno nelle procedure di separazione o divorzio che possono essere colpiti dalla Pas. Succede quando un genitore a seguito della separazione coniugale instilla nel figlio rancore, astio, disprezzo verso l’altro genitore. I figli in sostanza diventano un bottino di guerra, spesso un’arma di vendetta contro l’altro genitore. Una forma di violenza psicologica che comporta vere e proprie patologie. I bambini, le prime vittime, che assistono da protagonisti muti a queste vicende, spesso già testimoni di soprusi e maltrattamenti in ambito familiare, sulla cui pelle si aggiunge dolore. Una realtà molto diffusa, difatti, si stima che sono all’incirca 1400 i fascicoli sui quali ha indagato la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, per individuare la portata del fenomeno di vittimizzazione secondaria in danno di donne e minori vittime di violenza. La sentenza della Corte di Cassazione ora segna la parola decisiva ad una ferita troppo spessa aperta in molti bambini “bottino” e genitori rancorosi con l’ex coniuge.
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

Gli Stati non possono ostacolare il soggiorno del coniuge, che rimane tale anche se appartiene ad uno Stato che non riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Lo ha stabilito con una sentenza la Corte di giustizia dell’Unione Europea che ha di fatto riconosciuto i matrimoni tra persone dello stesso sesso “ai sensi delle regole – si legge- sulla libera circolazione delle persone”. La decisione arriva in seguito ad un ricorso presentato alcuni mesi fa da un cittadino romeno e dal suo consorte americano. I giudici di Lussemburgo hanno deciso che la nozione di “coniuge”, ai sensi delle disposizioni del diritto dell’UE sulla libertà di soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari, comprende i coniugi dello stesso sesso. Per cui, gli Stati membri sono liberi di autorizzare o meno il matrimonio omosessuale, ma non possono ostacolare il soggiorno di un coniuge seppur dello stesso sesso, anche se è si tratta di un cittadino di un paese non appartenente all’Unione Europea, ha pienamente diritto al soggiorno sul loro territorio. Tuttavia i giudici di Lussemburgo hanno stabilito che il rifiuto da parte di uno Stato membro di riconoscere ai fini del diritto di soggiorno derivato il matrimonio tra persone dello stesso sesso, legalmente contratto in un altro Stato membro, è atto ad ostacolare l’esercizio del diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio dell’Ue. La libertà di circolazione, infatti, varierebbe da uno Stato membro all’altro in funzione delle disposizioni di diritto nazionale che disciplinano il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Una sentenza che mostra un lato matrimonialista ugualitario per persone dello stesso sesso. Seppur l’Italia sia l’unico paese fondatore dell’Ue a non riconoscere il matrimonio omosessuale, il diritto riconosciuto oggi dalla Corte Europea, da noi è già realtà dal 2012. Fu il tribunale di Reggio Emilia a riconoscere il permesso di soggiorno a un giovane urugayano sposato con un italiano in Spagna, proprio appellandosi alla libera circolazione dei cittadini europei e dei loro familiari. Sentenza a cui fece seguito una circolare del ministero dell’Interno. Ma, la sentenza dei giudici di Lussemburgo sancisce che la nozione di “coniuge” riguarda anche i matrimoni contratti da persone dello stesso sesso, a prescindere, se lo Stato membro autorizzi il matrimonio omosessuale. Una sentenza storica, che abbatte gli ultimi ostacoli legislativi e forse anche mentali e abbraccia sempre più l’amore e le coppie arcobaleno, equiparandole alle coppie eterosessuali. Perché è una sentenza che ci ricorda ancora una volta che il diritto dell’UE non fa distinzione tra coppie omosessuali e etero regolarmente sposate. Uno “schiaffo” al neo ministro Fontana, alla guida del neo dicastero “famiglia e disabilità”, che nei giorni scorsi, è stato autore della teoria “il nostro popolo è sotto attacco” a causa delle unioni omosessuali e delle migrazioni. Per questo, bisogna, secondo lui, difenderlo con la battaglia di vita. La speranza è che il ministro si ricreda, alla luce anche dell’ultima sentenza dell’Unione Europea, che abbatte quelle poche ultime barriere limitatorie, magari dovremmo guardare più all’interno di una realtà fatta ancora di discriminazioni quotidiani ai danni degli omosessuali, di violenze e diritti umani e culturali sempre più ristretti. Come ha ricordato, Monica Cirinnà, autrice della legge sulle unioni civili, le famiglie arcobaleno sono una realtà nel nostro paese ed in due anni dall’approvazione della legge, che segnò ultima l’Italia in Europa sul tema, sono oltre ottomila le famiglie arcobaleno. Ultima unione in ordine di tempo un 93 enne ed il suo compagno 87 enne, che erano uniti dall’amore dal 1960. In questo lasso di tempo, due anni, sono oltre 17 mila le persone dello stesso sesso che si sono presentate davanti ai sindaci italiani per sancire ufficialmente la loro unione. Secondo i dati calcolati dal ministero degli Interni, aggiorni al 31 dicembre scorso, sono state 8.506 le coppie lgbt che si sono unite in matrimonio, di cui 6073 nel solo 2017. Numeri ai quali si aggiungono le coppie unitesi nel 2018. I dati registrano più unioni civili al nord rispetto al sud, dove il timore è ancora forte, ed è per questo che i timori non vanno alimentati ma placati, perché c’è famiglia dove c’è amore e questo va riconosciuto e non ostacolato, partendo dai diritti civili e sociali.
Si è “conclusa” in un’aula di Tribunale, del Tar in particolare, una controversia educativa che ha messo sul banco degli imputati una mamma salernitana, accusata di stalking dalla propria figlia. Il Tar nella sua pronuncia ha dato ragione alla giovane. Per la donna, un’insegnante dell’agro nocerino sarnese, è stato disposto un decreto di ammonimento: non dovrà proseguire con molestie nei confronti della figlia. L’insegnate era stata “ripresa” dal questore, che a metà dicembre scorso, le aveva notificato un “ammonimento orale” con l’invito “a non porre in essere atti o comportamenti che potessero ingenerare nella figlia timori, stati di ansia, tensione o che potessero alterare le normali abitudini di vita. La docente però non ha incassato il colpo, visto anche il suo ruolo educativo nella scuola, così si è rivolta al Tar di Salerno, per difendere il suo operato genitoriale e anche l’onore di insegnante, ma senza alcun successo. Ancor prima di ricorrere a querela di parte alla magistratura ordinaria, che avrebbe avviato poi un procedimento penale contro la madre, la giovane che, secondo i racconti della madre, sin da piccola si era sottratta ai controlli materni fin dalla giovane età, ha preferito esporre le sue ragioni ai carabinieri, che dopo l’istruttoria, hanno chiesto che fosse avanzata richiesta di ammonimento al questore nei confronti della madre. In ultima battuta la sentenza dei giudici amministrativi che ribadiscono l’ammonimento voluto dal questore, restando in piedi e scoraggiando ogni persecuzione da parte della madre. Insolito modo per risolvere una controversia familiare, educativa, ma anche per mettere mano a qualsiasi malessere ed incomprensione in un rapporto da sempre sacro e sano, quello tra madre e figlia. Sul caso è intervenuto anche Paolo Crepet, psichiatra, sociologo e scrittore, che ha parlato di giudici invadenti, ora anche nell’educazione. I “no” che sono diventati sempre più “si”, i paletti che sono crollati, le regole inesistenti, così le nuove generazioni crescono senza cultura, senza rispetto e seguendo il principio folle che tutto puoi pretendere e niente devi dare. Crepet, guardando, alla generazione di oggi ne parla come di una classe dirigente del domani fallita. Genitori assenti o troppo ossessivi, opposti e mai vie di mezzo. Con sempre meno fermezza. Il provvedimento fa discutere tra i genitori, ma se dall’esterno e da professionisti guardiamo il provvedimento, frutto di stati di timore, stati d’ansia e tensione nella figlia, e ci sia davvero una condotta ossessiva e scriteriata, allora è giusto tutelare i minori dagli eccessi. Se, invece, la mamma voleva solo fissare delle regole, allora il provvedimento risulterebbe eccessivo. Un genitore deve conoscere con chi il proprio figlio esce, con chi ritornerà a casa, preferirebbe ricevere un messaggio se il proprio figlio tarda nel rientrare a casa, se un genitore impone un orario di rientro, và rispetto, un genitore in quel caso non fa nulla di male, è semplicemente giusto e anche ovvio. Stiamo di fronte ad uno sgretolamento delle regole che sembra coincidere con un’evaporazione dei modelli tradizionali, il pensiero và subito alla scuola e a quanto sta accadendo. Bisogna avere il coraggio di educare, di bocciare, di dire di no. Se un professore mette un brutto voto e il giorno seguente un genitore si sente in diritto di aggredire il docente, è una società allo sbando, che non indirizza sulla strada dell’educazione, e stiamo creando adulti privi di desideri, di aspirazioni, di sogni, di regole e di tempo che serve per formarsi, per incoraggiare i loro obiettivi, ma soprattutto si sentiranno privi di consapevolezza della vita reale e delle sue difficoltà. Le colpe sono senza indugio degli adulti, che nel benessere hanno trovato l’ancora di riscatto: “non farò mancare nulla ai miei figli”, lo hanno ripetuto i miei genitori e decine di genitori che spesso mi sono trovata di fronte nella mia professione. Male, perché educare non significa sempre dare, ma anche togliere, non deve prevalere “lo fanno gli altri”, “ce l’hanno anche gli altri”, non significa sentirsi diverso, significa incoraggiare nei figli senso di responsabilizzazione, significa capire che esistono delle regole, che saranno anche quelle che la società ti chiederà per il vivere comune nella società. Significa insegnare ai figli che non si delega agli altri i principi ed i valori. Solo perché lo fanno gli altri non è detto che debbano farlo anche loro. Sono cresciuta ed oggi nella mia professione di assistente sociale, nell’incontrare i genitori, gli chiedo di ricordarsi che la vita è fatta di tappe: a 15 anni non puoi fare una cosa che dovresti fare a 25 anni, è un percorso fisiologico, di crescita, di maturità che si sviluppa in relazione agli eventi, agli anni che passano e a tutto ciò che si vive, proporzionato anche ai propri anni. In questo caso si ritroveranno poco più che venticinquenni magari su un divano annoiati e stanchi, perché non hanno null’altro da fare. In Italia, secondo i dati, tre milioni di ragazzi non studiano e non lavorano e non è solo colpa della crisi. Sono disorientati, hanno prosciugato la sete di conoscenza, di curiosità, non sanno neanche quali sono le loro attinenze, i loro sogni. Molti non sanno “da grande” cosa vogliono fare. Per affermarti devi avere delle basi e le basi si costruiscono con il sacrificio. Non puoi pensare di arrivare direttamente al vertice. E’ una lezione che conosco a memoria dai miei genitori. Ma adesso, con il senno di poi, non li cambierei con nessuno e soprattutto lo consiglio ai tanti genitori che spesso incontro impauriti e disorientati nel cammino genitoriale.
Non sono casi isolati né quelli dei genitori che postano sui social le foto dei figli minorenni né quelli dei giudici che li condanno a rimuovere le immagini da internet, ma per la prima volta, lo scorso dicembre, il tribunale di Roma, ha stabilito anche una sanzione pecuniaria per una mamma. Dietro la condanna, le lamentele del figlio sedicenne esasperato dal materiale che lei, tra l’altro coinvolta in una causa di separazione dal marito, pubblicava in rete. Non solo fotografie ma anche dettagli della storia famigliare. Il giudice ha stabilito il divieto per la donna di diffondere sui social notizie, dati e immagini del ragazzo. Nel caso in cui non rispettasse la sentenza dovrà risarcirlo con dieci mila euro. La legge sul diritto d’autore, stabilisce che il ritratto di una persona non può essere diffuso senza il suo consenso e a rafforzare la legge ci pensa la Convenzione Onu. I figli sono persone, per di più di minore età ed autonome, che hanno diritto a vedersi tutelata, riservata la propria sfera anche rispetto alle intenzioni dei genitori, lo ribadisce la Convenzione delle Nazioni Unite sull’Infanzia, che sottolinea come anche le persone minori d’età hanno diritto alla tutela della loro vita privata, della propria immagine e la propria riservatezza. E’ la prima volta che in Italia, viene stabilita, oltre che la rimozione del materiale foto e video, anche una multa per il genitori. Così il nostro Paese si inserisce nel solco già segnato da alcuni paesi europei dove le punizioni sono molto più severe, qui, è prevista una sanzione di 45 mila euro e la reclusione fino ad un anno, nei confronti dei genitori che violano la privacy dei loro figli. Ma sulla sentenza di Roma ha giocato un ruolo determinante anche il precedente dello scorso autunno, dove il tribunale di Mantova aveva stabilito che non si possono postare sui social network le foto dei propri figli minorenni se l’altro genitori non è d’accordo. Genitori social e figli senza privacy in balia del narcisismo dei genitori: foto delle feste, della comunione, di Halloween, foto dei temi che hanno preso il vito migliore della classe, considerazioni sui propri figli ed i social diventano una piazza di genitori narcisisti che azzerano la privacy dei loro figli, per di più minorenni. Ma se fino ad ieri era solo un invito a non pubblicare le foto dei minori per non rischiare di cadere nella trappola della pedopornografia, in un web sempre più spietato e grande fratello dei più piccoli, oggi, ci pensa la giurisprudenza a richiamare i genitori a foto che catturino il momento ma che restino private, dopo il giudice di Mantova che ha chiesto un’opinione comune e condivisa sulla pubblicazione delle foto in rete da parte di entrambi i genitori, il giudice di Roma, ha tutelato un minore di sedici anni, sentitosi schiacciato dalle foto in rete e dal racconto di una vicenda famigliare a suon di rancore a causa della separazione che si giocava sulla piazza social. Il giovane aveva persino chiesto al giudice di potersi trasferire in America e ricominciare lì una nuova vita. Genitori social che rimangono affascinati dagli scatti social che ritraggono i loro figli e catturano i commenti di decine di persone, che a volte serve ad avere conferme, perché per la psicologia postare specie nella fase della nascita, serve ad avere ottenere sostegno e supporto ma nel lungo periodo può amplificare le ansie. Si rischia di cadere nel tranello di voler mostrare a tutti i costi di essere genitori perfetti, considerando la genitorialità l’ingrediente essenziale della propria identità. Insomma, ben oltre la volontà di aggiornare gli amici o condividere bei momenti, al fondo degli atteggiamenti più martellanti c’è il vecchio meccanismo della conferma esterna. Che, riversa i suoi effetti anche sulle conseguenze emotive, positive o negative, ai commenti o ai like. E così i social si trasformano in uno specchio deformato: da una parte metto di sostegno e conforto, dall’altro severo giudice a cui abbiamo tuttavia assegnato un ruolo deliberatario. Oltre la psicologia ora c’è l’avvertimento dal tribunale: i genitori che pubblicano le fotografie dei figli minorenni sui social commettono un illecito che piò portare alla rimozione delle immagini e anche ad una somma di denaro a titolo risarcitorio a favore dei figli.
La bambina deve essere vaccinata anche se la madre non dà il consenso. A sancirlo la sentenza del giudice del Tribunale civile di Modena, che ha dato ragione al papà della piccola. Quando la bimba è nata, oggi ha sette anni, i suoi genitori erano entrambi contrari alla vaccinazione, tanto da aver firmato una lettera “di obiezione di coscienza” all’obbligo vaccinale, poi si sono separati e lui con il tempo ha cambiato idea ed ha cominciato a temere per la salute della piccola ma la moglie è sempre rimasta irremovibile e non trovando un accordo, l’uomo si è rivolto ai giudici. Sono passati tre anni, nel frattempo è stata introdotta la legge che estende il numero delle vaccinazioni obbligatorie necessarie ad iscrivere i figli al nido, alla materna e alla scuola dell’obbligo, una ragione in più per accogliere la richiesta del padre. Una sentenza in cui il giudice non si è trovato davanti a due legittime opinioni, ma si è trovato da un lato davanti ad una superstizione pericolosa e senza senso: le pericolosità e l’inutilità dei vaccini; dall’altra a tutto ciò che dicono i pediatri: i vaccini sono sicuri, indispensabili alla salute dei bambini. Eppure in aula lo scontro non è mancato, perché la madre della piccola si è fatta assistere dal consulente Stefano Montanari, uno dei punti di riferimento del mondo no-vax, il quale sostiene che i vaccini siano pieni di pericolose nanoparticelle. Decisivo nella decisione è stato il perito nominato dal tribunale: nella sua relazione ha spiegato che la bambina è in condizioni tali da non aver problemi con le vaccinazioni. Il Tribunale è intervenuto anche sull’obiezione di coscienza espressa a suo tempo anche dal padre, questa è sempre revocabile, si dice nel testo depositato. Infatti, il papà si era rivolto oltre che al giudice di Modena anche al Ministero della Salute, ma oggi al suo fianco c’è una sentenza che obbliga la madre a vaccinare la propria figlia oltre le proprie ideologie e le proprie opinioni. Una sentenza che mostra come lo Stato è dalla parte della scienza, della medicina, a difesa dei più deboli. La bambina di Modena, dunque, anche se un po’ in ritardo rispetto ai tempi stabiliti sarà sottoposta alle vaccinazioni previste dal piano vaccinale. La sentenza riporta all’attualità il tema dei vaccini, un tempo scudo di malattie per la quale si rischiava la morte, oggi, temuti e portano allo scontro genitori ma anche sostenitori no-vax e convinti sostenitori dei vaccini. “La storia del mondo senza vaccini è realmente tragica. E la storia di quello post-vaccinale nel caso in cui si rifiutassero le vaccinazioni, potrebbe esserlo molto di più”, è l’opinione del paleopatografo, Francesco Galassi, tra gli under 30 più influenti nel campo della medicina. Paura e scetticismo con bambini al centro della decisione, perché le notizie viaggiano in rete. La presenza di informazioni fallace in rete, ha portato allo scetticismo di molti genitori nei confronti delle vaccinazioni sia da attribuire al deficit di conoscenza storica, ossia occorre una riscoperta dell’effetto devastante delle malattie infettive nel mondo pre-vaccinale. Informazione, conoscenza, superando scetticismo, paura ma anche il dolore, che a volte spinge a mettere in dubbio il valore delle vaccinazioni che non risolve la questione. Informazione e conoscenza in tema, che dovrebbe pervenire anche dal Ministero. Intorno al mondo dei vaccini girano notizie, voci, teorie, si parla di complotto, di egoismo, di un giro d’affari ma da parte del Ministero non ci sono opuscoli, linee guida, storia che racconti di un mondo senza vaccini e dell’enorme pericolo alla quali ci esponiamo senza copertura vaccinale. Il mondo dei vaccini sembra un mondo a sé, fatto di teorie e ideologie, eppure i casi aumentano: bambini sono morti perché privi della copertura vaccinale ed i genitori sono diventati sostenitori del progresso scientifico, sentendosi gli assassini dei propri figli; ma i casi, le epidemie a poco servono, se non c’è informazione, consulenza da parte del Ministero ed è ciò che ha chiesto la giornalista Francesca Barra, in una lettera senza risposta al Ministro Lorenzin, ammalatasi a Milano, lei e due dei suoi tre figli, di epatite A, che si trasmette per via oro-fecale da cibi crudi o dal poco igiene con gli alimenti. In realtà a Milano i casi di epatite A sono quadruplicati e nonostante da settimane la stampa ne parli di profilassi o di vaccini non se ne parla. Eppure il virus rischia di contagiare altre persone, in quanto dai ristoranti ai bar il cibo la fa da padrone. E la società civile resta a guardare, ad informarsi sul web che alimenta solo egoismo e complotto, perché non vaccinare i propri figli non solo li mette in pericolo, ma contesta anche la norma elementare per cui il comportamento individuale non debba nuocere agli altri. Così rifiutare i vaccini diventa l’espressione di un individualismo senza limiti, l’estremo rifiuto della società di massa.
Veleni in rete, tensioni a scuola. Si moltiplicano i casi innescati dall’uso improprio dei social. Insulti online mentre in aula si finisce per litigare. L’ “altra scuola” corre veloce sui social network e si porta dietro un mare di veleni. Volano insulti, calunnie, minacce, frasi pesanti che mettono in difficoltà i ragazzi presi di mira, che spesso si ritrovano isolati. Perché il tutto è letto da tutti e le repliche sono spesso più velenose. Studenti denigrati e fotografie rubate: whatsapp semina discordia. Si chiama bullismo, si legge guerra feroce ai coetanei. Il fenomeno è in costante aumento soprattutto alle medie. Se ne parla nei consigli di istituto. I docenti, in classe, devono fare i conti con le liti innescate dagli insulti sulla rete. I docenti sono preoccupati, i ragazzi subiscono di nascosto. Soffrono in silenzio. Escalation di rabbia, parolacce, che spesso sottintendono una chiara, inequivocabile forma di cyberbullisimo. Un mondo parallelo nella quale gli adolescenti si infilano ma che rischia di inquinare: perché il passo dalle frasi digitali a quelle delle aule scolastiche è poco. “Nessuno mi ha aiutato”, “pensavano solo a filmare la scena”, racconta così la sua storia una quindicenne del siracusano vittima di bullismo. Picchiata davanti a tutti, senza che nessuno intervenisse. Una spedizione punitiva organizzata da due ragazzine di quindici e diciassette anni. Adolescenti come lei. Il movente sarebbe la gelosia che le due provavano per un ragazzo, fidanzato della quindicenne. L’incubo dura un mese: minacce telefoniche, danneggiamento della minicar con cui la quindicenne andava a scuola. Trova il coraggio, ne parla in famiglia, ma la situazione peggiora: viene aggredita anche la madre. Lesioni personali aggravate anche dalla premeditazione: l’accusa nei confronti
Due bambini ed una famiglia divisa dalla fine di una storia d’amore. Gli ex litigano per i due figli ed il giudice nomina un “vigilante”. Inedita ed insolita la sentenza di qualche settimana fa emessa dal Tribunale di Mantova, che ha deciso di imporre alla coppia l’intervento di un coordinatore genitoriale. Una sorta di tutore che dovrà vigilare sul corretto comportamento dei due ex coniugi nei confronti dei loro due figli, di 12 e 9 anni. Proteggendoli da una situazione divenuta intollerabile a causa delle tensioni e della accuse reciproche. Infatti, nelle motivazioni del Tribunale civile si legge – “per sorvegliare il comportamento della coppia”. Così per i genitori ed i figli arriva il coordinatore, che nasce negli Stati Uniti d’America, ma una figura professionale che da poco è entrata a far parte dell’ordinamento giuridico italiano. Il suo compito sarà quello di aiutare i due genitori nelle scelte riguardanti la formazione dei figli e dar loro una mano a gestire i conflitti. Ma dovrà, soprattutto vigilare sul calendario delle visite, prendendo lui le decisione se i genitori non riusciranno ad accordarsi. Spetta alla sentenza come in questo caso stabilire con quale cadenza si dovranno monitorare i rapporti e sino a quando. In molti casi il nome del professionista è scelto dal consulente tecnico nominato dal giudice, con la quale gli ex coniugi devono collaborare, senza comportamenti ostacolativi. La parcella del coordinatore sarà a carico di entrambi i genitori, infatti, la sentenza mantovana prevede che le spese vengano sopportate dalle parti nella misura di una spesa straordinaria. Amori che giungono al capolinea, matrimoni che finiscono, separazioni dolorose e conflittuali e se le storie d’amore finiscono per sempre, un legame resta invece per sempre: essere genitori. I bambini vengono utilizzati come scudo o arma di ricatto nelle liti matrimoniali, vengono usati come oggetto di scambio da genitori irresponsabili e prepotenti, ma anche vittime di un sistema giudiziario lento. C’è sempre uno dei due ex partner che non riesce a vedere i propri figli, che vive come violenza le norme e i giudizi. In tutte le vicende familiari di figli contesi, la sofferenza coinvolge in eguale misura entrambi i genitori ma i diritti violati sono sempre quelli dei minori, come raccontano anche la maggior parte delle carte processuali in tema di separazioni. Separazione spesso è sinonimo di querelle, insensibile e dolorosa che si sviluppa tra un padre ed una madre, molto più vicina a una rissa piuttosto che ad una riflessione matura tra ex coniugi nell’interesse della prole. Urla e porti che si chiudono in modo crudo e violento: voci di liti e di menzogne tra padri e madri che soffocano il pianto silenzioso e sommesso dei figli. Una porta che non si può richiudere, a doppia mandata le istanze di chi ha diritto di crescere con serenità e di non soffrire. E se la separazione o il divorzio è altamente conflittuale l’aula di un Tribunale diventa la sede di discussione e determinante sarà il ruolo dei Servizi Sociali che determineranno l’affidamento dei figli, e potranno anche prevedere percorsi di supporto alla genitorialità, come percorsi di mediazione familiare o anche il moderno coordinatore genitoriale. Supporti che servono a conciliare gli ex che non smettono mai di essere genitori ed educatori, per cui la costruzione di un rapporto fatto di collaborazione e di decisione diviene importante, specie dove la l’ex coppia ha un elevato livello di tensione che comporta inevitabilmente un’incapacità di gestire in maniera congiunta e condivisa il progetto di crescita dei figli. Nei casi di separazioni conflittuali, l’assistente sociale nell’immediato su mandato della Magistratura svolge un’analisi psico-sociale, che coinvolge la famiglia, la scuola e l’ambiente di vita del bambino. In casi immediati può predisporre l’allontanamento del minore o prevedere un affido esclusivo ad uno dei genitori nel frattempo che si predisponga un progetto di intervento per il nucleo familiare, in modo da convertire questo affido da esclusivo a condiviso, nel tempo e con un progetto di supporto alla genitorialità. Gli adulti dovranno spogliarsi dai panni di coniugi sofferenti e conflittuali, indossando quelli di genitori pronti al benessere dei propri figli, aprendosi anche all’aiuto e alla collaborazione di professionisti, e dovranno tener ben presente che le ragioni di un padre o di una madre non potranno mai essere superiori a quelle di un figlio.