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Agire, subito. A fianco delle donne vittime di violenza e di chi non ha più voce…

untitled 2Donne umiliate, maltrattate, picchiate ed uccise. Un bollettino da guerra, la cronaca di queste ultime ore. Da Nord a Sud dell’Italia e non c’è ceto sociale o differenze culturali che tengano. Gli uomini diventano violenti, bastardi e cattivi. Senza se e senza ma. Un’ignobile guerra contro le donne che ci rimettono i sentimenti, le paure, le angosce e molto-troppo spesso la vita. Inaccettabile. Intollerabile. Fermiamo questa violenza inaudita. Abbiamo bisogno di uno Stato che stia accanto alle vittime, che le supporti, li tuteli. Abbiamo bisogno di pene certe e severe.

Siamo stanche “del poi faremo”, “è pronto un disegno di legge”, proclami a cui non seguono i fatti e si continua ad essere umiliate o uccise dall’uomo che credevamo ci amasse.
E’ impensabile che alle soglie del 2019 in una società che corre veloce e fatta di donne di potere e di carattere, le donne siano ancora l’avamposto della politica e delle tutele.

Avete idea di cosa di prova a stare accanto ad una persona che anche per una banalità diventa violento, irascibile, aggressivo, che ti accusa –anche se colpa non ne hai?

Avete idea di cosa si prova ad aver paura-ma di quelle che ti scappa la pipì- quando inizia a sbattere i pugni su qualsiasi cosa, quando la rabbia è fuoco nei suoi occhi e ti guarda come se fossi il diavolo in persona? Avete idea di cosa si prova fingere a se stessi che è solo un momento, che poi passerà? O quando ti fai mille domande e magari cerchi di capire dove hai sbagliato, colpevolizzandoti, ne avete idea?

Avete idea di come la tua vita diventa “oggetto suo”, ti priva prima degli amici, poi ti impone dei diktat, poi inizia a mettere bocca nel tuo lavoro, sui tuoi accordi lavorativi, sino ad allontanarti da tutto. Ne avete idea?

Avete idea di come “quell’uomo” riesca a spegnere quell’uragano di vitalità, energia, spensieratezza, gioia che sei? E’ come se un albero si spogliasse di tutte le sue foglie anche se non è autunno. Ti spegni. Ti annulli. Ti cancelli.

Avete idea di cosa si prova ad essere abbandonati su una strada di notte solo perché “hai osato” dire di voler tornare a casa. Perché casa dei tuoi genitori è sempre il porto sicuro dove vuoi tornare.

Vi potrei chiedere altri dieci, cento “avete idea”, ma preferisco fermarmi qui.

 

Direte e penserete: “gli uomini violenti vanno lasciati e subito. Ai primi segnali”, sapete se lo ripetono anche le donne che prendono coscienza di essere annullate, violentante psicologicamente, fisicamente, donne che si sentono oggetto, ma non è sempre così facile e sapete perché? Perché la paura si amplifica, arrivano le scenate sotto casa, arrivano i messaggi che fanno paura, le ansie si moltiplicano, e nel frattempo ti sei spenta totalmente: non sorridi più, non hai più tutta quell’energia, ti senti una stupida: “perché i segnali c’erano” (te lo dici da sola) e sai di non essere tutelata da nessuno: se denunci non possono agire, infondo e –nella stragrande maggioranza dei casi- è un incensurato, e poi secondo il nostro sistema giuridico alla prima denuncia non si può intervenire. Che poi anche alla seconda, terza, centesima non è che sempre ci siano interventi di tutela, a volte sono delle misure di allontanamento che poco o nulla fanno. Così decidi di fare da sola, farti aiutare, supportare e proteggere dalla tua famiglia. Esci con gli amici-almeno sei in compagnia-, cambi abitudini, blocchi numero, social, porti con te sempre il telefono-si sa mai qualcosa- e speri (forse egoisticamente ed in cattiva fede) che lui possa distogliere il suo sguardo e magari invaghirsi di un’altra-mentre ti ripeti: ”poverina”-.

E quando le cose si placano –nella migliore delle ipotesi che auguro a tutti che possa essere così- ti ritrovi con la famiglia che è indebolita e sfinita, ma è stata la tua salvezza, pochi veri amici al tuo fianco, sono passate settimane e mesi e sei ritornata quella che eri con la tua vita, i tuoi difetti, il tuo carattere, ed una sera ti ritrovi a parlarne come se stessi parlando in terza persona, come se tu stessi raccontando la storia di qualcun altro, non la tua.

Ma non sempre ahimè, ahinoi così, a volte c’è una tomba che aspetta le donne che non potranno parlarne più e non potranno più riprendersi la loro vita.
Agiamo, Agite subito, adesso, non c’è più tempo.

 

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Storico ma attuale al via il Servizio Civile. Consigli e spunti per partecipare

Giovani volontari cercasi. Il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale, ha pubblicato i bandi per il 2018 sul sito http://www.gioventuserviziocivilenazionale.gov.it con una novità reduce dello scorso anno: i progetti del servizio civile nazionale si potranno svolgere sia in Italia che all’estero. I ragazzi potranno scegliere dove andare a fare volontariato. Numerosi i progetti, di cui molti all’estero, presentati dagli Enti inseriti nell’Albo nazionale e tra altri offerti dagli Enti iscritti negli Albi regionali e delle Provincie autonome. Quasi tutti sono finanziati, dunque saranno retribuiti, anche se con somme non elevate, circa 433 euro al mese, ma esentasse e senza contribuzione. E sembrerebbe proprio che il servizio civile piaccia. Secondo un report pubblicato dal Dipartimento della Gioventù e del Servizio civile nazionale sono 43 mila i volontari attivi sul territorio, si arriva a 50 mila se si considera l’ultimo scaglione che è partito il 10 gennaio 2018. Non si tratta di un contratto di lavoro ma di un rapporto che vede insieme lo Stato, il giovane e l’ente pubblico o privato che lo ha selezionato, formato e preso in servizio. Un tempo era un modo per aggirare la “noia” ma da quando non è più obbligatorio, la prospettiva è cambiata. Storico ma attuale: il servizio civile è stato istituito quando è stata abolita la leva militare, ma conserva un forte legame con l’articolo 52 della Costituzione, che parla di difesa della patria. In questo caso si tratta di una difesa non armata con mezzi non violenti. Una difesa che oggi è a tutto tondo: delle molte ingiustizie, dalle diseguaglianze, dalle esclusioni, dagli sfregi al nostro patrimonio ambientale e culturale. Tutto quello che contrasta con i valori di equità, solidarietà, integrazione ed inclusione. Giovani ambasciatori di certi valori, ma non in astratto ma attraverso esperienze concrete. Chi vi scrive è anch’essa una volontaria del servizio civile, ormai da sei mesi. Sono in quel limbo che oscilla tra sei mesi già trascorsi e sei che verranno. Ho scelto la pubblica amministrazione, che sarà controcorrente, piena di problemi, ma è un perfetto ingranaggio che tiene insieme le istituzioni ed i servizi. Conoscerla da vicino, è entusiasmante quanto faticoso, costruttivo quanto professionale. Sinonimo di esperienza di vita e professionale. Ritmi di lavoro serrati, scadenze, burocrazia, ma anche volti e visi, storie umane, giornate lunghe ma che lasciano una morale. Il servizio civile è un modo per i giovani di mettersi alla prova, aprendo i propri orizzonti, in alcuni casi cambiando la propria visione sulla realtà dei problemi, contemplando nuove difficoltà mai contemplate prima. Un’occasione – e non da poco- di acquisire un senso di impegno civico, di appartenenza ad una comunità avendo la possibilità di sapere che il proprio impegno può essere d’aiuto, aprendosi nuovi orizzonti professionali e lavorativi in una catena che dà agli altri ma anche a se stessi. Un anno costruttivo, utile, formativo, un’esperienza che nasconde in sé una triplice valenza. La prima come servizio di utilità alla comunità a cui si è iscritti, realizzando il progetto scelto; la seconda è di formazione personale all’impegno civico, alla dimensione volontaria e anche all’acquisizione di competenze, capacità anche di tipo non scolastico. La terza è la positività di un’esperienza, sia per la propria vita che per qualche opportunità in più nel proprio itinerario professionale. Per molti giovani, il servizio civile diventa un “anno sabbatico”, per molti quello subito dopo la laurea o il diploma, che anziché risolversi in un nulla di fatto diventa, spesso, la chiave per capire davvero ciò che si vorrebbe fare un giorno come lavoro. Da volontaria che unisce il suo sapere professionale ed esperienziale, credo sia un’opportunità straordinaria, seppur dipende come viene percepita e vissuta da chi decide di intraprendere un anno – che dopo regalerà sempre incertezza- ma si possono sviluppare attività professionali e costruire una rete di contatti utili per il futuro lavorativo e professionale. D’altra parte per i Comuni, e questa è una certezza dell’oggi, i volontari del servizio civile diventano una risorsa preziosa che colma la carenza d’organico per un famoso turn-over ormai fermo per gli enti locali, ed i giovani del servizio civile freschi diplomati o laureati diventano una vera e propria boccata d’ossigeno. Non un lavoro, dunque, ma il servizio civile è l’occasione per calarsi in un perfetto scenario lavorativo: orari di lavoro da rispettare, obblighi e responsabilità in capo al volontario, rapporti tra colleghi e qui nasce lo spirito di condivisione e di gruppo, che a volte si annulla per lasciare posto ad ostilità e conflitti, ma un perfetto disegno di ciò che è l’ambiente di lavoro e prima un giovane imparerà a calarsi dentro e prima riuscirà a farsi le ossa in situazioni e climi lavorativi non sempre sereni e distesi. Perché tra colleghi non sempre la convivenza è facile. Tra i più giovani, secondo i dati, piace anche la possibilità di viaggiare con progetti sperimentali come quello dei Corpi Civili di Pace che, si pongono come obiettivo la promozione della pace e della cooperazione tra i popoli. I volontari operano in situazioni e aree già monitorate da organizzazioni del territorio, per affiancare chi lavora da anni in contesti difficili. Partecipare diventa un’occasione che lo Stato fornisce ai più giovani in un tempo di precarietà ed incertezza. Il bando è strutturato come un normalissimo bando concorsuale, il futuro volontario dovrà scegliere il progetto che è in linea con le proprie attinenze o semplicemente il progetto che più lo coinvolge. Inviata la richiesta di partecipazione con i documenti richiesti, dovrà attendere la pubblicazione delle date dei colloqui. Un vero e proprio colloquio conoscitivo/professionale. Al volontario sarà richiesta una breve presentazione, gli saranno fatte delle domande: dalla storia del servizio civile, alle motivazioni personali che lo hanno spinto a partecipare. Vivetevela come un normale colloquio, ma con carattere e decisione, dimostrate competenza, pacatezza, compostezza. Al termine del colloquio, l’esaminatore darà un punteggio che si sommerà alla valutazione dei titoli fatta in sede di richiesta, dopo qualche settimana saranno pubblicati i risultati con annessa graduatoria dei ammessi e non ammessi. Non sempre si riesce ad essere ammessi, almeno non sempre la prima volta e chi vi scrive ci ha provato più di una volta, ma se la ritenete un occasione che proprio non volete perdere per il vostro backgroud personale e professionale, non perdetela di vista.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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La maturità che spaventa. Il sogno ricorrente: rifare l’esame di maturità

untitledCuriosi ma non troppo. Ansiosi ed impauriti. Maturandi alla riscossa e Giugno è proprio il loro mese. Infatti, l’estate si apre per molti studenti con il periodo dell’anno nel quale esplode il grande argomento degli esami di maturità, portando con sé angosce, paure, rimpianti e perfino un po’ di nostalgia. Quello che è certo è che, a distanza di anni, nonostante la carriera, la professione intrapresa, la laurea sudata e raggiunta, il ricordo dell’esame di maturità è dietro l’angolo. La maggior parte delle persone si ritroverà a dover affrontare lo stesso esame di maturità all’interno dei propri sogni. Perché, parafrasando Eduardo De Filippo, nella sua celebre commedia “Gli esami non finiscono mai” e quello della maturità non si dimentica certo facilmente. Spulciando Freud potremmo collocarlo nei “sogni tipici” ovvero nei sogni che contengono fantasie collettive, sogni che almeno una volta nella vita l’essere umano farà. Il sogno dell’esame di maturità in molti è ricorrente e si presenta sotto lo stesso “copione”: nella maggior parte dei casi scopriamo per un qualche motivo di dover ripetere l’esame di Stato, o ci troviamo già nel percorso che ci porta a scuola, domandandoci perché dovremmo mai rifarlo, spesso, invece, si sogna di dover organizzare lo studio per l’esame di maturità tra il lavoro o addirittura tra gli esami universitari, altri, invece, sognano di ritrovarsi dinanzi al compito di italiano o di latino e di farsi prendere dalla “sindrome del foglio bianco”. Difficilmente nel mondo dei sogni, superiamo l’ostacolo dell’esame facilmente e molti si risvegliano in preda all’angoscia di fronte ad una prova impossibile. E così il giorno dopo ci interroghiamo sul perché continuiamo a sognarlo o che significato possa avere. I sogni tipici, come teorizzava Freud, fanno emergere, fantasie universali, legate a tematiche che in ogni cultura e in ogni tempo l’umanità ha affrontato o deve affrontare. Dobbiamo però dire che il sogno di per sé si ricollega al passato, a qualcosa di vissuto già, che rispecchia il presente, qualcosa che in qualche modo stiamo vivendo o ci ricorda l’oggi. Quindi, per la psicologia, l’esame di maturità potrebbe corrispondere ad vissuto di inadeguatezza verso qualcosa legata alla nostra vita attuale: una nuova relazione, un nuovo lavoro, impegni scolastici o sentirsi immaturi in una determinata situazione. Ma, il sogno potrebbe svelare un messaggio più profondo, legato alla nostra crescita personale: abbiamo bisogno di coraggio, di uno slancio che ci permetta di andare oltre qualcosa che oggi ci frena, nascondendo un desiderio evolutivo, di cambiamento. Sognare per quanto possa spaventare o intimorire, fa bene in quanto fa riemergere paure e incertezze intime, sognare fa rievocare, e non sempre hanno bisogno di essere necessariamente interpretati, non va ricercato costantemente un significato, perché la vita va vissuta, seppur con molti impedimenti e prove difficili da superare, e forse per molti, la maturità è stata la prima vera prova di maturità, quel passo- slancio che ci ha concessi di entrare all’interno della società, di fare scelte di studio e lavorative personali, scelte che hanno disegnato il futuro e l’aspetto professionale di ognuno di noi, pur con errori e perplessità. Guardandolo con occhi diversi, il sogno della maturità, nasconde anche, un desiderio nostalgico, di spensieratezza e di gioventù, di sana incoscienza, di leggerezza, che -siamo sinceri – da adulti non c’è più. L’esame di maturità è il “rito di passaggio”, che  con le sue paure porta anche tanti rimpianti. Seppur l’adolescenza da sempre viene raccontata come una fase di crescita delicata e critica, è proprio in quegli anni che si vivono esperienze importanti: il primo amore, le prime prove scolastiche, le emozioni delle competizioni sportive, le prime amicizie profonde, le prime vere scelte sul proprio futuro: dal corso di studio a scuola, al lavoro dei sogni che si rincorre. Sono ricordi che appartengono alla vita di ognuno di noi che hanno novità e forza, e qualche volta la nostalgia la sente anche il nostro inconscio. Pur consapevoli che la “Notte prima degli esami” arriva per tutti, anzi, forse come racconta nella sua commedia De Filippi, gli esami non finiscono mai e di notti prima degli esami ne vivremmo molte, con la consapevolezza di Luca, uno dei protagonisti del film “Notte prima degli esami”: “E così è arrivata la notte prima degli esami. Non era come me l’aspettavo. Non c’erano più i miei amici non c’era più neanche Azzurra. Eravamo rimasti solo in due: io e la sfiga”.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Corte Europea, il ricongiungimento familiare per minori stranieri è possibile dopo 18 anni

untitledUn minore straniero non accompagnato che diventa maggiorenne nel corso della procedura di asilo conserva il suo diritto al ricongiungimento familiare. Lo sancisce una sentenza della Corte europea di giustizia a partire dal caso di una ragazza eritrea arrivata nei Paesi Bassi quando era ancora minorenne. Chiesto il ricongiungimento con i familiari, la sua domanda fu respinta perché nel frattempo era diventata maggiorenne, sottoposta la questione pregiudiziale dal Tribunale dell’Aia alla Corte europea, questa ha sentenziato che vale l’età di ingresso nel paese dell’ Unione Europea, non l’età al momento del riconoscimento dell’asilo. La sentenza, prevede, che la domanda di ricongiungimento familiare deve tuttavia essere presentata entro un termine ragionevole, in linea di principio di tre mesi a decorrere dal giorno in cui al minore interessato è stato riconosciuto lo status di rifugiato. Nella sua sentenza, la Corte, qualifica come “minori” i cittadini di Paesi non Ue e gli apolidi che hanno un’età inferiore ai 18 anni al momento del loro ingresso in uno Stato membro della comunità europea e della presentazione della loro domanda di asilo in tale Stato, e che nel corso della procedura di asilo diventano maggiorenni ed ottengono in seguito il riconoscimento dello statu di rifugiato. Infatti, come ricorda la Corte, la direttiva prevede per i rifugiati condizioni più favorevoli per l’esercizio del diritto di ricongiungimento familiare in considerazione delle ragioni che hanno costretto queste persone a fuggire dal loro paese, condizioni come la guerra, le persecuzioni religiosi, che impediscono il loro vivere quotidiano ed una vita familiare normale. In particolare, i rifugiati minori non accompagnati dispongono del diritto di ricongiungimento che è sottoposto alla discrezionalità dello stato membro. La direttiva nel suo non indica espressamente sino a quale momento un rifugiato debba essere minore per poter beneficiare del diritto al ricongiungimento familiare, per cui la Corte ha deciso che la determinazione di questo momento non può essere lasciata alla discrezionalità di ciascun stato membro. Scappano da guerre, carestie, persecuzioni religiose, fame o schiavitù. E scappano soli. I documenti ufficiali del Ministero del lavoro, le cifre dicono che in Italia i minori stranieri non accompagnati censiti al dicembre 2016 sono 17.373, di cui 6.561 considerati “irreperibili”. Un numero in netto aumento stando alle cifre del 2017, dove nei primi mesi dello scorso anno si registravano 16.348 MSNA, seguendo la sigla dei documenti ufficiali. I minori non accompagnati tra il 2011 e il 2016 costituiscono il dieci percento di tutti gli arrivi complessivi dei rifugiati in Italia. Una numero che fa rabbrividire considerato che spesso sono bambini che da soli hanno affrontato un viaggio pericoloso e spesso mortale, in condizioni disumane anche per un adulto. Sfidano le onde del mare, la paura, scappando dai loro paesi d’origine, spesso perdono i loro genitori durante il viaggio, cadendo nelle mani di sfruttatori e trafficanti. I bambini ed i ragazzi che toccano terra in Italia, hanno le spalle storie di abusi e violenze, anche prima che affrontassero la traversata del mare. In un documento pubblicato da “Save the Children” si legge di storie di torture, soprusi, stupri, privazioni di acqua e di cibo, lunghi viaggi in piedi o in condizioni impossibili. La traversata del mare è solo la parte finale di un lunghissimo incubo per questi bambini. Stando ai dati del Ministero del lavoro, questi bambini provengono dalla Gambia, segue l’Egitto, l’Albania, sino a alla Somalia, passando per Costa d’Avorio, Eritrea. Paesi in crisi profonda, o dilaniati dalla guerra o da regimi crudeli. Sul territorio italiano sono ospitati soprattutto in Sicilia, Calabria, Emilia Romagna, Lombardia e Lazio. I minori arrivati in Italia non possono essere rimpatriati, deve essere garantito loro il diritto all’istruzione e all’assistenza sanitaria, con l’accesso al sistema di protezione dei rifugiati. In loro lo sguardo alle loro origini, alla loro famiglia rimasta tra la guerra e la paura, così il ricongiungimento familiare diventa la luce infondo ad un tunnel fatto di speranza e di soprusi, di sacrifici che sanno di ripartenza sul territorio italiano. E se fino a qualche tempo fa la norma sul ricongiungimento familiare era affidata all’interpretazione e alla discrezionalità dello stato membro che ospitava il minore straniero non accompagnato ed in alcuni casi i ricongiungimenti non avvenivano perché la richiesta era stata formulata al raggiungimento della maggiore età, la Corta ha stabilito che per il ricongiungimento familiare vale l’età al momento dell’ingresso nel Paese ospite. Una sentenza che farà tornare il sorriso e l’emozione a molti minori stranieri non accompagnati e alle loro famiglie lontane.

 (Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Lunga vita agli anziani, arriva il co-housing: la coabitazione tra nonni

untitled 2Coinquilino, roomate o compagno di stanza sono ormai termini in disuso: oggi la parola d’ordine è co-housing. Si tratta di qualcosa di più della semplice condivisione di un appartamento: spesso si creano degli spazi comuni, all’interno dei condomini, dove poter non solo trascorrere del tempo insieme, ma persino realizzare attività che siano di aiuto per gli altri. Nelle grandi città italiane, ad esempio, ci sono i primi condomini dove, in apposite aree comuni, qualcuno si occupa di tenere i figli propri e quelli degli altri, mentre altri si occupano di andare a fare la spesa per tutti. Il co-housing, che sta cambiando, costringendo gli architetti a rivedere le concezioni di living tradizionali, arriva come antidoto della solitudine degli anziani, creando uno spazio di coabitazione. Chiacchierano, coltivano i propri hobby, raccontano aneddoti della propria gioventù, e soprattutto si “fanno compagnia”, ascoltati dai più giovani e da quelli che ormai considerano dei veri e propri familiari nonostante non ci sia alcun vincolo di parentela. Una convivenza che abbatte i costi, ma anche la solitudine ed i rischi legati alla terza età, come le truffe e gli incidenti domestici. Non solo. Gli anziani sono datati, se richiesto dai familiari, anche di gps per poter essere rintracciati, se fuori casa, in caso di perdita di senso dell’orientamento. L’esperienza del co-housing, parola inglese che ha sostituito in Italia il vecchio concetto di “convivenza” tra i coinquilini, nasce in Danimarca negli anni ’60. Oggi è diffuso in tutto il mondo: dalla Svezia, al Giappone, passando per la Francia e gli Stati Uniti. Anche in Italia ormai ha preso piede, affermandosi soprattutto nella terza età. Non una casa di riposo o di cura, ma un appartamento dove gli anziani convivono, in alcune co-housing, come ad Acerra in provincia di Napoli, vi sono degli operatori socio-sanitari, una cuoca ed uno psicologa che li aiutano nella coabitazione. In questi casi, nessuno indossa un camice e si rivolgono agli ospiti chiamandoli “nonni”, in modo da farli stare a proprio agio in un ambiente nuovo. La coabitazione tra nonni lascia alle spalle la solitudine, così come i problemi legati alla gestione economica di un appartamento, che molti, ormai non possono permettersi. In Italia la popolazione anziana è pari a 2 milioni e 300 mila persone sopra i 75 anni che vivono da sole in case di proprietà con quattro o più stanze. Il progressivo aumento della popolazione anziana comporta la necessità di individuare sistemi di sostegno all’invecchiamento attivo. Così si fa largo il co-housing per nonni, in alcune realtà convivono anziani e non. Gli anziani soli con case grandi ospitano i più giovani: studenti fuori sede, o semplicemente loro coetanei in difficoltà economica, ospitandoli a modici prezzi. In cambio però devono collaborare nei lavori domestici, nel pagamento delle utenze e farsi compagnia a vicenda. Una realtà che si sta diffondendo piano piano con le paure e le diffidenze del caso anche in Italia incontrando vantaggi e svantaggi. I vantaggi sono molteplici. Non solo possibilità per gli anziani di vivere in un ambiente più stimolante di una casa di riposo, ma anche un’innovazione dei servizi di cura, grazie all’aiuto reciproco “co-care” che permette di risolvere con facilità alcuni problemi assistenziali non gravi. Il co-hounsing è anche la soluzione più economica: anche per aggregare la domanda di servizi. D’altra parte la difficoltà del vivere comune, soprattutto per gli anziani, sta nel dover condividere i propri spazi, ma è solo questione di abitudine. Che il co-housing funzioni in Europa e anche in alcune zone d’Italia e che sia una valida alternativa è fuori dubbio, ma sarebbe anche opportuno che tutti noi ci impegnassimo a riformulare la società, imparando a non misurare il tempo in base alla produttività, ritagliandoci tempo per la condivisione proprio con gli anziani e riconoscendone il valore sociale, umano e storico. Perché ciò avvenga, occorre tempo, disponibilità a mettere in discussione la propria vita, stabilendo nuove scale di valori e nuove priorità. Un compito non semplice, che se ci impegnassimo un po’ forse riusciremmo a raggiungere o quantomeno a cercare di perseguire. Bastano piccoli gesti quotidiani e piccole importanti attenzioni ai nostri nonni.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Donne impronta della vita e del sociale

foto per copertina blogL’otto marzo, Festa della Donna in tutte le sue sfumature, torna dalla scena politica, a quella culturale, passando per la scena artistica. La festa profumata di mimose è diventata, complice di movimenti di empowerment femminile per rafforzare il ruolo della donna nella società, una realtà uniforme ma ricca di significati. La scienza dice che altro che parità, l’8 marzo sarebbe il caso di festeggiare il primato femminile in diversi campi e settori della vita sociale e lavorativa: secondo la scienza le donne sono multitasking, sorridono di più e sanno degustare meglio il vino. Non solo: felicemente solitari e orgogliosamente nerd, sono almeno dieci i settori che vedono le donne primeggiare. Se la scienza motiva il nostro genere, la ricorrenza ci riporta alla realtà della disuguaglianza e della violenza di genere. E c’è chi in 70 cortei scenderà in piazza contro la precarietà e le discriminazioni. Contro i ruoli imposti nella società fin da piccole, contro i ricatti sul lavoro che generano molestie e violenze, per un reddito di autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare universale. Dalle virago in carriera anni ’80 alle moderne mamme “pancine”, dalle edoniste alle rivoluzionarie, che combattono l’Isis ed il consumismo, dalle spregiudicate single metropolitane alle tante spose e figlie prigioniere dei vincoli familiari: e così dalle nobildonne alle single metropolitane, negli anni, la storia ha costruito modelli per le donne. Ma ogni giorno le donne giocano una sfida, ed una di queste avviene nel sociale, mostrando il volto di un’Italia in cui le donne non sono costrette alle quote rosa ma sono parte integrante e dirigente di aziende e cooperative sociali. Da Nord a Sud, disegnando il volto di un Paese che si è “disabituato a volere”. Si unisce così il Nord con la tradizione delle cooperative sociali e il coraggio dell’impresa rosa del Sud, specie nel napoletano, con la determinazione dei centri antiviolenza. Un popolo femminile operoso e silenzioso che tesse la rete del welfare italiano. Femminile plurale per la nuova economica e così si tesse la tela della cooperazione sociale nelle mani delle donne. Un mondo esattamente contrario a quello che siamo abituati a vedere tutti i giorni. Non è solo quello del 50% di disoccupazione femminile, non è solo quello costretto alle quote rosa per ottenere un minimo di rappresentanza, non è solo quello della condizione salariale discriminante né quello – vergognoso – del 9% nei ruoli dirigenti in rosa. E’ un paese in cui il lavoro si coniuga con i tempi e i diritti di genere: nelle cooperative sociali c’è il 70% di occupazione femminile e il 50% di donne nei consigli di amministrazione, senza dimenticare che per “Legacoopsociali” sono le donne presidente e vicepresidente nazionali. Una pagina femminile e sociale che si coniuga perfettamente con l’esempio di decine di donne che hanno fatto la storia del lavoro sociale. Da Maria Gaetana Agnesi a Gisela Konopka passando per il premio nobel Jane Addams. Donne che hanno scritto pagine importanti nel settore del welfare a livello nazionale ed internazionale seguendo sempre un’ideale di giustizia, rispetto e uguaglianza. Esempio che non possono restare un bel proclama e la storia moderna ci mostra l’esempio di cooperative divenute “ascensore sociale” per le donne, creando una rete femminile in grado di superare le difficoltà e generare nuove opportunità di lavoro e ricchezza, non solo nel nostro paese ma anche in molti paesi in via di sviluppo. Confcooperative in prossimità dell’8 marzo ha snocciolato alcuni numeri relativi all’occupazione femminile che registra nel settore il 61% degli occupati nelle sue imprese, dove la governance femminile si attesta al 26%. I dati mostrano come in Italia le cooperative sono uno dei pochissimi ascensori sociali per le donne ed i giovani. Sguardo puntato anche sulle cooperative nelle zone in via di sviluppo che sono impegnate a trasferire knowhow dei modelli produttivi per innescare sviluppo sul territorio, rendendo protagoniste le donne delle comunità locali. L’obiettivo è raggiungere l’uguaglianza di genere e favorire l’empowerment di ragazze e donne come previsto da Agenda 2030, perché non rappresenta solo un diritto umano fondamentale, ma la condizione necessaria per un modello di sviluppo di cui tutti potranno beneficiare e le donne, specialmente in contesti di povertà, sono quelle che conferiscono la maggior parte della forza lavoro, sono le più affidabili nelle restituzioni dei crediti e sono quelle che giocano un ruolo chiave nei processi di inclusone e di integrazione nei territori. Insomma, un potere femminile infinito anche in un campo come il sociale che ha bisogno di sorrisi, energia e tenacia, che sembrerebbe provenire proprio dalle donne.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Pamela e i ragazzi da recuperare. Cosa funziona (e cosa no) nel sistema delle comunità

IMG_0217Uccisa e rinchiusa in due valigie. E’ l’orribile scoperta fatta pochi giorni fa da un’automobilista nel maceratese. I carabinieri quando le hanno aperte si sono trovati dinanzi ad una macabra scoperta: il cadavere smembrato di Pamela Mastropietro, 18 enne, scomparsa da giorni da una comunità di recupero per persone che soffrono di disagi e dipendenze della zona. Gli esami e le indagini continuano per ricostruire le ultime ore di vita della giovane che poi è stata ritrovata cadavere. La terribile morte di Pamela Mastropietro impone di accendere un faro sulla politica relativa alla cura e la prevenzione dei disturbi da uso di sostanze, tema ormai sparito dall’agenda della politica. Eppure in questi anni l’aumento dei consumi da parte delle teeneger è uno dei campanelli d’allarme sollevati dagli esperti. In una relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendente in Italia, dello scorso 2017, emerge come sia fortemente aumentata la percentuale di studentesse delle scuole secondarie superiori che ha sperimentato almeno una sostanza psicoattiva illegale con un incremento del numero di ragazze che ha un consumo di sostanze definibile “ad alto rischio”, come la poli assunzione o l’uso quotidiano. Nel 2016 vi è stato inoltre un incremento dei minori in carico ai Servizi Sociali della Giustizia Minorile per reati correlati alla droga. Si sente, dunque, la necessità di iniziare a favorire regole che promuovano l’aggancio precoce e la presa in carico, cercando di mettere mano, con una rivisitazione dell’offerta complessiva regionale considerato il contesto di sviluppo del fenomeno della dipendenza patologica. E’ importante che si punti sulla prevenzione ed il trattamento precoce dei disturbi da uso di sostanze e comportamenti compulsivi secondo idonee progettualità definite, rivedendo anche la possibilità di optare per una struttura residenziale per l’accoglienza ed il trattamento della popolazione giovanile in modo da evitare pericolose cronicizzazioni. Il lavoro degli operatori dell’aiuto: psicologici, assistenti sociali, educatori, medici non è facile si gioca tra il Ser.D conosciuti anche con Sert, che hanno il compito della prevenzione primaria, della cura, della prevenzione delle patologie correlate, della riabilitazione e reinserimento sociale e lavorativo. Tutto ciò in collaborazione ed in sinergia con le comunità terapeutiche, le amministrazioni comunali ed il volontariato. I SerD si ritrovano all’interno dei dipartimenti delle dipendenze delle Asl. In generale attuano interventi di primo sostegno ed orientamento per i tossicodipendenti e le loro famiglie, specialmente nei confronti delle fasce giovanili della popolazione. In particolare operano accertamenti sullo stato di salute del soggetto da trattare e definiscono programmi terapeutici individuali da portare avanti nella propria sede operativa o in collaborazione con una comunità terapeutica accreditata (mediante programmi residenziali o semi residenziali variamente articolati). La legge e la deontologia vincolano gli operatori del SerD al segreto professionale, che viene meno se si tratta di un minorenne, in quanto è necessario far riferimento a chi esercita la potestà genitoriale. La sinergia tra il SerD e le comunità terapeutiche risulta fondamentale ed indispensabile per creare un sistema territoriale realmente in grado di fornire risposte efficaci alla cittadinanza in stato di bisogno. E’ bene ricordare che in Italia le persone tossicodipendenti possono accedere gratuitamente a tutti i servizi per le dipendenze che abbiano ottenuto l’accreditamento o, almeno quello provvisorio. Inoltre, l’ingresso e la permanenza è sempre volontaria. Non esiste, infatti, nel nostro ordinamento alcun obbligo di cura. A tal proposito è ormai acclarato che il primo periodo di permanenza in comunità terapeutica sia quello più problematico per l’ospite. L’accettazione della vita in gruppo, la condivisione degli spazi e dei tempi, l’accettazione di regole nuove, rappresentano solo alcuni fattori che possono infliggere colpi alla motivazione e al cambiamento della persona ospitata. Ed è questa la fase più delicata in cui si rischia l’allontanamento momentaneo o definitivo. Il lavoro, infatti, è proprio sull’ansia, sulle paure, sulla reiterazione di alcuni comportamenti. Accogliere, rielaborare, restituire il senso della difficoltà con e al soggetto, deve diventare il perno centrale della terapeuticità. Per cui spingere sul solo pedale della medicalizzazione, non serve, bisogna che sia accompagnato da un supporto psicologico e sociale. Si dovrà lavorare con l’altro con un percorso personale e una continua rivisitazione di sé e del bagaglio culturale, inteso nell’accezione di sensibilità al vissuto e operativo. L’équipe dovrà supportare in modo continuo, con una supervisione costante, incontrando la persona nella sua patologia, nel suo vissuto, emotività, affettività e complessità. Solo così si potrà poi pensare ad un programma personalizzato, che volterà soprattutto a favorire l’empowerment, quale processo dell’azione sociale attraverso il quale le persone, le organizzazioni e le comunità acquisiscono competenza sulle proprie vite, al fine di cambiare il proprio ambiente sociale e politico per migliorare l’equità e la qualità di vita. Di chiunque. Un lavoro per niente semplice, che incontrerà ostacoli ed intoppi, fallimenti ed obiettivi che verranno meno, ma non bisognerà mai smettere di credere che oltre all’approccio medico, c’è un approccio umano, sociale, che tenderà di evitare che la sostanza diventi quel filo rosso che vinca sul soggetto.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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L’arte del dono: dal caffè al pane sospeso, quando il cuore si apre agli altri

Lasciare un caffè pagato per chi non può permetterselo. E’ la tradizione del cosiddetto caffè sospeso, nata a Napoli ma ora diventata pratica solidale in molti Paesi del mondo. Un’usanza nata durante la guerra, quando il caffè era oro, padre dell’idea Napoli, per ricordare agli avventori di lasciare un caffè pagato: la moka messa sul bancone. La moka è sempre quella, gli aneddoti si accumulano negli anni: da Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli, che molto spesso lascia una decina di caffè sospesi, ai professionisti che ogni giorno decidono di lasciare un caffè pagato. La crisi ha fatto il resto e la tazzina solidale esce da Napoli, sale lungo lo stivale e arriva fino a Pordenone contagiando persino Lampedusa. Nascono siti internet e diventa “la rete del caffè sospeso”, viaggia sui social network con oltre duecentosessantamila followers. La tazzulella cambia volto a Roma e diventa forno sociale, dove la gente inforna pane, lasagne, biscotti: tutto ciò che portano da casa ed è gratuito, mentre, l’aroma del caffè solidale si sparge in tutto il mondo: Spagna, Francia, Belgio, Svezia, e a Parigi il caffè sospeso diventa la baguette sospesa, in Tailandia è un pasto completo che resta sospeso per chi ne ha bisogno. A Torino si pensa al pane sospeso, un’idea al vaglio della commissione Servizi Sociali del Comune che potrebbe raccogliere e pubblicare sul sito dell’amministrazione le adesioni dei panificatori, tramite l’AssoPanificatori, disposti a partecipare e a consegnare il pane sospeso a chi ne ha bisogno. Pane acquistato dai clienti che desiderano donarne una parte. I destinatari sarebbero le famiglie in difficoltà con priorità verso le persone anziane, le famiglie in stato di disagio sociale, inoccupati. E se a Torino è solo un’idea al vaglio, a Salerno, da tre anni un panificio collabora al “pane sospeso”, ogni giorno, infatti, il panificio garantisce 15Kg di pane alle famiglie salernitane indigenti. A Messina, da anni i panifici espongono un salvadanaio destinato a piccole offerte che potranno aiutare famiglie in difficoltà, si potrà lasciare il resto o fare una donazione spontanea, anche di pochi centesimi. Le donazioni verranno poi convertite in “buoni acquisto” che verranno consegnati alle famiglie che fanno parte della “Rete Cibo Condiviso”, da spendere presso i panifici aderenti. Modi semplici per aiutare tante famiglie in difficoltà. Passi e prassi che mostrano lo specchio di un paese solidale e generoso. Ed il gesto semplice quanto umano e solidale di lasciare “sospeso” qualcosa è volato oltre oceano, dove Corby Kummer, uno dei più famosi food writer degli Stati Uniti, ha ripreso il concetto ed ha addirittura lanciato una sfida alle grandi catene americane: le aziende, secondo lui, dovrebbero aggiungere una nuova voce ai registratori di cassa, per permettere ai clienti di pagare una certa somma per gli altri. Magari in prossimità del Natale, potremmo imparare ad usare parole nuove, che non avremmo mai pensato di usare, il cui significato però ci piace, come per esempio: “pago anche un caffè sospeso”.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per il denaro.it)

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#duemiladiciassette di sentimenti. Il racconto del mio personale anno

foto per blog 2Facebook, il racconto del mio 2017 è #duemiladiciassette ma te lo racconto io, seppur gli anni non si raccontano ma si vivono intensamente e fortemente con annessi e connessi. Ma gli anni emozionano, spaventano, sono tempeste e tornati, gioie infinite e sorrisi e allora ti racconto cosa ho provato.

PAURA

Quando ho visto la morte in faccia di una persona a me cara

Quando dopo centinaia di curriculum inviati il telefono non suona

Quando vai a fare un colloquio ma conta più “se ci stai” che la sostanza

Quella di essere sempre “poco” per gli altri

Quella di perdere chi ami

 

ANSIA

Per il tempo, sempre poco

Quella di perdere tempo, quando invece fai mille cose

Quella che si prova quando qualcuno non ti vuole

Quella dei colloqui che sembra sempre come il primo esame all’università

Quando squilla il telefono di sera o nel cuore della notte ed è il coglione di turno che sbaglia numero

 

DOLORE

Per la sofferenza altrui

Quando scopri che non è come pensavi ma è tutta un’altra realtà

Quando sei impotente davanti al dolore degli altri

Quando il dolore ti sfida

 

RABBIA

Davanti alla mia impotenza

Davanti a futili motivi che degenerano in strane discussione

Che mi tengo dentro e mi fa chiudere lo stomaco

Quella che provi quando vorresti essere una normale ventiquattenne un po’ sballata e senza responsabilità

Quella che provo davanti a progetti a vuoto

Quella di un sociale arrangiato e vuoto

FELICITA’

Negli occhi, nei gesti, negli abbracci di mio nipote Claudio, infinito amore della mia vita

Quella di un abbraccio vero e sincero

Quando sono in corsia coi malati, perché sono loro che danno qualcosa a me e non io a loro, ne sono certa

Quando mi spendo per gli altri nel mio “infinito buonismo” come dicono in molti

Quando riesco a regalare un sorriso ai miei genitori e alla mia mamma

Quando salto sulle note della musica e mi sento libera e felice

#duemiladiciassette di pianti, sorrisi, incazzature, delusioni, di forza che pensi di non avere ma che esce dal cilindro senza accorgertene. Questo Natale non chiedo nulla, ma la Speranza quella sì ed un pizzico di Serenità che possa trovarsi nelle persone, nel lavoro, nell’affetto di chi ci ama ed i noi, sperando di essere sempre persone nuove e migliori. Ma, sbagliare anche, perché il più grande regalo che possiamo farci è sbagliare dal colore della maglia che acquistiamo o nella vita, l’importante è trovarne la morale e magari ricominciare più forte di prima, o almeno ci si prova.

E… buon fine 2017 e buon occhio al 2018!

 

 

 

 

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In corsia tra i malati oncologici, Insieme per la battaglia più importante della vita

FB_IMG_1511987989951In corsia, tra i cubicoli ospedalieri, tra i pareri dei medici e le terapie da somministrare. Toccante, forte, ma viva come in effetti è la vita, il DH dell’ospedale in cui ogni giorno vengono somministrate a decine di pazienti fiale di chemioterapia è un groviglio di volti segnati, sofferenti, battaglieri, sorridenti, ma anche un groviglio di speranza, “perché fin quando c’è partita bisogna giocarsi tutte le carte”, dice qualche paziente. Da molti mesi mi occupo di malati oncologici e dei loro familiari, come assistente sociale e volontaria per l’associazione “Insieme per Rinascere”, li supporto, li consiglio nel percorso sociale e umano nella battaglia più grande della vita, quella della lotta al tumore. Organizzo e prendo parte ai gruppi di auto aiuto, partecipo e sposo iniziative come il make up per le donne in terapia, ma mai mi sono calata nella realtà ospedaliera fino ad ieri, quando insieme ai miei colleghi e compagni di un’avventura che sa di vita e di dedizione agli altri, sono andata al DH dell’ospedale di Pagani: pochi posti, per tanti, troppi malati, che aspettano anche ore per quel posto e per la somministrazione di quel farmaco che tutti sanno far male dopo, ma che rappresenta la speranza a cui aggrapparsi per vincere quel male arrivato d’improvviso a scombussolare i piani della vita. Il cancro è una cicatrice nell’anima. Ruba la salute, spesso la dignità, la fiducia in se stessi, la percezione di sé nel mondo. E negli ospedali esiste una vita, esistono uomini e donne che malgrado tutto continuano ad essere madri, padri, mogli, mariti o figli. Riescono a collocare nell’agenda della vita l’appuntamento per la chemioterapia fra una lavatrice o la partita di calcetto del proprio figlio. Sono uomini e donne coraggiosi e bellissimi. Ma quegli ambienti sono carichi di speranza, di dolore e di solitudine, così ieri siamo approdati con le nostre paure più intime, con il nostro sorriso, con la nostra grinta e la nostra tenacia, per essere accanto a chi ogni giorno lotta anche contro se stesso. Siamo arrivati per parlare, ma non pensate che sia stato un sopporto indegno o di rito, non ci sono state parole “non vi preoccupate”, “ce la farete”, abbiamo parlato ognuno di noi stessi, dei nostri interessi, della nostra vita, dei dilemmi amorosi, abbiamo ascoltato musica, perché ai pazienti abbiamo donato grazie ad un’agenzia di comunicazione dei tablet per accompagnarli nelle ore di terapia. Perché il cancro si può affrontare se un paziente non è solo ma ha una rete sociale, familiare, affettiva, su cui poter contare. Un sorriso, una parola, un po’ di musica per alleggerire il carico, stemperare la tensione, una piccola parentesi di leggerezza, per non sentirsi soli, con qualche piccola e sana iniezione di fiducia, con uno strumento di supporto sociale, psicologico che aiuti i pazienti a trovare la forza di combattere.

E’ stata un’esperienza unica, che mi ha infuso un’adrenalina ed una carica incredibile, dando senso al mio lavoro e alle mie idee, alle nostre iniziative come associazione. Credo che forse siano stati più i pazienti a dare qualcosa di intimo, profondo a me che forse io nell’ascoltarli e nel dialogare. Presto ritorneremo, ci saremo, perché Insieme siamo la forza. Insieme per Rinascere.

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