Bimbo morto per otite, sotto inchiesta il medico omeopata ed i genitori

Farmaci omeopatici anziché antibiotici. E’ morto così ad Ancona, Francesco, un bambino di 7 anni che non ce l’ha fatta a superare le complicazioni di un’otite curata per quindici giorni solo con l’omeopatia. Il suo cuore ha smesso di battere nella notte tra il 27 e il 28 Maggio, all’ospedale di Ancona, dove il suo cuore ha smesso di battere. I suoi genitori hanno autorizzato l’espianto degli organi. Un estremo atto d’amore. Per i medici dell’ospedale “Salesi” di Ancona, che hanno provato a strappare il bimbo alla morte, il piccolo si poteva salvare con un comune antibiotico, eppure i genitori che hanno altri due figli, hanno curato il piccolo con preparati naturali, affidandosi cecamente ad un medico omeopata, Massimiliano Mecozzi, che come ha raccontato il nonno di Francesco, non voleva il suo ricovero in ospedale neanche quando il piccolo aveva 39 di febbre, perché a suo dire lo avrebbero reso sordo. Sul caso è intervenuto l’Istituto Superiore di Sanità e avverte che la medicina omeopatica non può sostituire del tutto la medicina tradizionale. Farmaci, telefoni, computer, ricettari e cartelle cliniche di altri pazienti, i Carabinieri di Orvieto hanno sequestrato tutto nei due uffici del medico omeopata. Il medico, padre di quattro figli, in passato pare avrebbe fatto parte di una setta religiosa che rifiuterebbe qualsiasi cura ospedaliera. Nel registro degli indagati sono stati iscritti anche i genitori del piccolo Francesco, perquisita anche la loro abitazione, dove gli investigatori hanno portato via telefoni e farmaci, che serviranno agli inquirenti per ricostruire gli ultimi quindici giorni di vita del bambino, mentre, si svolgerà anche l’autopsia del piccolo. Il caso divide l’opinione pubblica, fa discutere e rende impossibile nel ventunesimo secolo la morte di un bambino perché curato con granuli omeopatici. La colpa è tanto del medico quanto dei suoi genitori, che seppur si siano fidati di una persona a quanto pare nota e ne hanno seguito scrupolosamente i consigli, hanno fatto una scelta sbagliata. I preparati omeopatici sono efficaci se nei primi giorni funzionano, ma ad un peggioramento servono farmaci tradizionali con una terapia somministrata da un medico o da un pediatra, come sarebbe dovuto avvenire in questo caso. Eppure tra i genitori le cure omeopatiche stanno prendendo sempre più piede, facendone addirittura un punto d’onore, perché il figlio di tre anni non abbia mai preso un antibiotico. Genitori che diventano, purtroppo, sempre più ideologizzati, tanto da un riuscire più ad avere uno sguardo lucido sul tema della salute e della malattia, tanto da convincersi, che la guarigione dipenda da granuli sulla quale c’è un’ampia letteratura scientifica, che non necessariamente tutta contraria, ma supportata dall’idea che vada somministrato un antibiotico nei casi più gravi dopo essersi consultato con un medico. Ma l’omeopatia oggi è cool, una visione pericolosamente totalitaria. Tutte noi possiamo sbagliare, certo. Ma se quella mamma non fosse stata accecata dall’ideologia, mai avrebbe permesso a un bambino di restare 15 giorni con la febbre. Te lo dice l’istinto prima ancora che l’esperienza. Eppure, è stato più forte l’ordine di un medico che l’ha spinta a fare probabilmente il contrario di quello che lei sentiva. E che ora dovrà rispondere dell’accaduto davanti a tutti, per primo una famiglia in lutto, in secondo un’opinione pubblica sgomenta e poi dinanzi alla magistratura e al Tribunale per i Minorenni, per capire se questa ideologia possa colpire anche gli altri due bambini. Di certo questa morte ci fa sprofondare in un Medioevo dove i bambini davvero morivano per un’otite. Che oggi accada è sconvolgente, incredibile, insopportabile.

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L’esercito dei nuovi poveri: giovani e italiani

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messCi sono i giovani che hanno superato gli anziani e gli stranieri, ma soprattutto le famiglie con due o più figli: la crisi economica ha ridisegnato la mappa dell’indigenza tra le fasce sociali. Vivono in povertà assoluta, ovvero, persone che non hanno mezzi di sussistenza, 4.6 milioni, numero più alto dal 2015. Ma sono più di 8 milioni gli italiani che in generale hanno difficoltà economiche. 1.6 milioni le famiglie che incontrano difficoltà, sono quelle famiglie composte da quattro o più persone e le famiglie composte da soli immigrati. Al Sud la percentuale è di gran lunga superiore a quella degli immigrati. La povertà colpisce soprattutto i più giovani dai 18 ai 34 anni, casi di povertà economica, lavorativa, abitativa. I dati sulla povertà restano stabili tra gli anziani ma si triplicano tra i giovani e gli over 50. Dato preoccupante sono i minori: un minore su dieci vive in una situazione di grave indigenza: 1.31.000 per l’esattezza. La fotografica è stata scattata dal rapporto Caritas ed è drammatica.  Aumentano, infatti, gli italiani che si rivolgono ai centri d’ascolto della Caritas. Disoccupati, precari e pensionati: la povertà in Italia cambia volto. E soprattutto continua ad aumentare. C’è l’impiegato che ha perso il lavoro e l’imprenditore con l’azienda fallita. C’è il ragioniere e l’avvocato. C’è la pensionata, l’operaio licenziato e l’esodato. Alle mense italiane della Caritas ci sono sempre più italiani. Non solo senzatetto, clochard e sbandati. L’esercito dei nuovi poveri è quello della gente comune, delle persone qualunque, uomini e donne della porta accanto, padri e madri, lavoratori e lavoratrici senza più lavoro, stroncati dalla crisi e dal precariato, finiti sul baratro da un giorno all’altro. Tra i tavoli delle mense italiane si ascoltano le storie di vita quotidiana, storie che potrebbero accadere ad ognuno di noi. C’è chi si ritrova in bilico tra la perdita del lavoro e l’attesa della pensione, è quello che oggi si chiama esodato. Si ritrovano dopo il ridimensionamento dell’azienda a far fronte all’affitto da pagare, alle spese, troppe per poter saldare senza un lavoro e così si ritrovano con la loro dignità tra i tavoli della Caritas e cercano anche ospitalità per la notte. Non solo storie ma i dati dimostrano che i nuovi poveri sono italiani. Nel corso degli ultimi cinque anni, ai centri d’ascolto della Caritas c’è stato un aumento di 4 punti percentuali di utenti italiani. Alle mense Caritas gli italiani sono il 40% del totale, circa 50mila persone che mangiano con regolarità. Uomini e donne si equivalgono, c’è una prevalenza di coniugati (48,6%), seguono i disoccupati, le persone con domicilio e con figli. L’età oscilla tra i 35-44 anni ed i 45-54 anni.  Gli italiani alla Caritas non smettono di credere in un futuro migliore. Tenaci e non arrendevoli, nonostante tutto, seppur covano dentro rabbia contro il mondo del lavoro e contro la politica. Ma nelle mense trovano spazio, ascolto prima ancora che un pasto, gli operatori infatti riescono a supportare ed incoraggiare quanti prendono parte alla mensa, che resta l’unica realtà a cui potersi rivolgere per chi è in difficoltà. E se il mondo istituzionale e politico fino a qualche tempo fa restava a guardare ora sembra proprio che qualcosa si stia muovendo contro l’esercito dei poveri, infatti, è stata varata una misura di contrasto alla povertà: il reddito di inclusione, che dovrebbe coinvolgere due milioni di persone. Il reddito di inclusione crea un percorso per le famiglie in difficoltà, infatti non si limiterà solo a dare un sostegno economico alle famiglie in condizione di povertà ma si prenderanno in carico questi nuclei familiari con l’obiettivo dell’uscita da questa condizione guardando anche al lavoro e all’insieme dei servizi sociali. Si chiama reddito di inclusione ma si legge sotto l’acronimo di “Rei”, che interesserà circa 400 mila famiglie, per un totale di circa 1.5 milioni di persone. Famiglie con figli minori, disabili, donne in gravidanza e over 55 disoccupati in condizioni di disagio. L’accesso avverrà attraverso il modello Isee, questo permetterà di tenere conto delle famiglie che pagano l’affitto. Potranno accedere al beneficio anche alcuni proprietari di prima casa in povertà. La soglia per ottenere il beneficio sarà indicata nei decreti attuativi ma dovrebbe aggirarsi intorno ai 6 mila euro. L’importo mensile di aiuto non potrà superare i 485 euro al mese, ma l’importo sarà legato al numero dei componenti della famiglia e alla situazione reddituale. Per evitare che sia un disincentivo alla ricerca di lavoro, l’assegno verrà dato almeno in parte e per un periodo anche dopo un eventuale incremento di reddito. Il Rei sarà assegnato solo con l’adesione ad un progetto personalizzato di attivazione e inclusione sociale e lavorativa. Le risorse stanziate per il piano sono di 1.18 miliardi per il 2017 e di 1.7 per il 2018. Misure che non sembrerebbero fini a se stesse, fatte di incentivi m anche di sostegno sociale, eppure un primo tentativo era già stato fatto con il “SIA”, Sostegno Inclusione Attiva, fallito in molti comuni anche del Sud per la carenza di personale, in primis assistenti sociali che potessero pianificare e concordare con l’utenza il progetto personalizzato di inclusione, previo il monitoraggio costante. Sembrerebbe proprio che le basi di aiuto ci siano ma manca il personale per attuarlo: un cane che si morde la coda. Sarà questa la volta buona?

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Accattonaggio: un esercito di minori all’angolo delle strade

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messCon la mano tesa, percorrono le strade del nostro paese. Accovacciati a terra come stracci o vagabondi tra le auto in sosta. Sono loro, il popolo degli indigenti, dei reietti. E’ la dura legge della sopravvivenza di molti bambini, costretti a chiedere l’elemosina ai semafori o sul sacrato delle chiese. Capita di incontrarli sui bus urbani, in stazione, tra le bancarelle dei mercati rionali. Scene quotidiane di un’ infanzia negata. Un bicchiere di plastica da riempire e qualche santino per fare presa sulla carità cristiana e sulla generosità dei passanti durante le ore convulse dello shopping. Molti di questi bambini presidiano gli ingressi di bar, tavole calde e supermercati affermando di “aver fame”, ma in realtà accettano solo monete. Il passante di turno che si offre di comprare sul momento qualcosa da mangiare non è particolarmente gradito. Non è un mistero che tutto ciò rientri nella severa logica familiare: portare a casa più denaro possibile. Un passaggio antico quanto il mondo, l’elemosina, un tempo, veniva indentificata con il nome di “questua”: che, secondo la tradizione cristiana, indicava l’andare di porta in porta a elemosinare offerte, in particolare cibo o denaro. Oggi, a distanza di millenni, la prassi non ha modificato il suo significato, ma ha tramutato il nome in altro: accattonaggio. Con l’avvento della crisi economica, che ha portato molte famiglie a fare i conti con le difficoltà economiche, specie famiglie già indigenti ed in difficoltà, come i rom, gli extracomunitari, che per sopravvivere ricorrono all’elemosina o vendere piccoli oggetti. All’angolo delle strade vi è un vero e proprio esercito di minori. Il fenomeno dell’accattonaggio minorile ha subito un’impennata a ridosso degli anni ’80, fenomeno partito dai minori slavi sbarcati sulle nostre coste. Ad oggi, accanto a queste 3-4mila presenze sul territorio nazionale, si sono aggiunti fanciulli provenienti dal nord Africa e dall’Albania, sempre più vittime di organizzazioni dedite all’immigrazione clandestina. Bambini che così vengono sottratti all’infanzia, al gioco, all’istruzione, ad una vita di opportunità, di sapere e di occasioni. Ad oggi, l’accattonaggio è un reato penale, l’art. 670 del codice penale, prevede la reclusione fino a tre mesi per chiunque elemosini denaro in luogo pubblico. Una sentenza del 1995 ha fatto una distinzione tra le diverse forme di accattonaggio. Pertanto, se la richiesta di denaro è legittimata da “umana solidarietà”, se fa “leva sul sentimento di umana carità” e se “non intacca né l’ordine pubblico né la pubblica tranquillità”, allora essa è lecita. Quindi, distinguere un tipo di accattonaggio da un altro diventa una cosa molto complessa, soprattutto se non si è nelle condizioni di valutare quale sia il limite per  la “reale povertà” o di prevedere l’utilizzo finale del denaro richiesto, ossia se poi questo viene utilizzato per l’acquisto di alcool, droga o altri beni non legati ad uso di primaria necessità. E i bambini lungo le strade che chiedono l’elemosina? Anche in questo caso, con la sentenza n. 44516/2008, la cassazione ha stabilito che una madre Rom che portava i bambini a mendicare al semaforo era stata assolta dall’accusa di “riduzione in schiavitù”. Infatti, l’accattonaggio con minori rom al seguito non è necessariamente una forma di maltrattamento o sfruttamento di minori. In pratica, secondo la sentenza, anche i bimbi rom chiedendo l’elemosina (per sopravvivere) contribuiscono all’economia familiare. In altre parole, i giudici non hanno autorizzato la “questua” dei rom con i minori al seguito, hanno invece contestato l’equazione: elemosina sta a rom come sfruttamento di bambini sta a schiavitù.
Il fenomeno è complesso quanto complicato: molti di questi bambini rappresenta per i genitori una fonte economica. Un fatto che scandalizza noi, non le loro famiglie. Credo che ci vorrà molto tempo, forse un equivalente economico da offrire e un grande lavoro di approfondimento, per venire a capo del problema Ma ci si scontra con la carenza di assistenti sociali che possano vigilare, segnalare in tempo ai Tribunali, ancor di più garantire servizi e benefici economici alle famiglie. Così, se il contrasto alla mendicità non è supportato da adeguati strumenti di reinserimento nella società, si rischia semplicemente di cadere in azioni repressive. Eppure il principio ispiratore è la legge 285 del ’97 che è il principale strumento di attuazione della Convenzione internazionale dei Diritti dell’Infanzia, ratificata da quasi tutti paesi del mondo. Essa invita Comuni, singoli o associati, a promuovere condizioni di vita dirette a garantire a tutti i bambini e le bambine, una crescita equilibrata e dignitosa. Sembra un difficile cammino che il nostro paese non ha ancora compiuto per salvare dagli angoli della strada e restituirli all’infanzia questi bambini.

(Articolo pubblicato su: “il denaro.it)

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Riforma della giustizia: via con la cancellazione dei Tribunali per i minorenni

 

img_0217Organo di garanzia suprema, nel panorama della giustizia viene definito uno dei più grandi uffici giudiziari per l’esercizio della giustizia in ambito minorile in Italia, è il Tribunale per i minorenni, caratterizzato da un bacino di utenza assimilato al distretto della Corte d’Appello. La riforma del processo civile, discussasi nelle scorse settimane in Senato, prevede la soppressione dei tribunali per i minorenni, sostituendoli con sezioni specializzate all’interno dei tribunali ordinari. La riforma scritta nel ddl 2284, già approvato alla Camera, in un articolo prevede la soppressione dei 29 tribunali per i minorenni italiani e delle procure minorili che saranno sostituiti da sezioni apposite all’interno dei tribunali ordinari. Il mondo della giustizia è in rivolta. Sono state presentate ben quattro proposte di stralcio. Da Nord a Sud si rincorrono convegni e petizioni, la più popolare lanciata su “Change.org” ha superato le 23mila firme. Firmatari nomi di spicco della magistratura e non solo: tra associazioni di settore e non. Eppure l’Europa ha indicato l’Italia come modello nella direttiva sul “giusto processo minorile”, ma il governo si muove nella direzione opposta. Il governo taglia la giustizia, con l’intento di razionalizzarne i costi, cancellando così i tribunali dopo quasi cento anni di storia. Non solo il settore della giustizia minorile si muove contrario alla soppressione ma anche quella ordinaria già fortemente gravata dai tagli e dal ridimensionamento del personale, inimmaginabile pensare anche di accollarsi le competenze riguardanti i minori: dalle funzioni penali alle adozioni. Inoltre, il trasferimento delle sezioni minorili nella macchina già congestionata dei tribunali ordinari dovrebbe avvenire a costo zero. I tribunali per i minori spesso intervengono prima che i ragazzi compiono reati, ciò che non potrebbe fare la giustizia ordinaria, incapace di mettere in atto un intervento di prevenzione, danneggiando così gli interessi e i diritti dei minori e delle loro famiglie. Difficile immaginare che una procura, che si occupa di questioni che vanno dal terrorismo alla corruzione, possa dedicare ampie risorse alle segnalazioni dei servizi sociali. O che possa pensare al futuro dei figli delle famiglie mafiose, come hanno cominciato a fare i tribunali per i minorenni di Reggio Calabria e Napoli. Non essendo più autonomi, i passaggi burocratici delle sezioni minorili potrebbero raddoppiare, con un abbassamento del servizio. E i ragazzi, finora protetti in un sistema giudicato tra i più avanzati al mondo, finirebbero per essere una delle tante incombenze, confusi tra gli adulti e le tante scartoffie. Il rischio maggiore che gli addetti ai lavori denunciano è la perdita della specializzazione che in questi anni ha reso l’Italia il fiore all’occhiello della giustizia minorile, separata da quella degli adulti. Grazie alla composizione mista dei tribunali minorili, fatta da giudici togati e onorari, esperti in pedagogia o psicologia, assistenti sociali, fa sì che il processo penale minorile sia diverso da quello per gli adulti, improntato invece in un’ottica di sanzione e punizione. Si tratta di una logica diversa: il ragazzo non solo viene visto come autore di reato, ma anche come vittima di una situazione familiare disagiata, quindi persona da supportare ed aiutare. Si punta non alla punizione del minore ma alla possibilità di offrirgli una seconda possibilità. Privilegiando l’ascolto, la conoscenza delle personalità e la sospensione del processo con la messa alla prova. Si punta non alla punizione del minore ma alla possibilità di offrirgli una seconda possibilità. Privilegiando l’ascolto, la conoscenza delle personalità e la sospensione del processo con la messa alla prova. E l’azione deve essere immediata, perché si tratta individui in crescita che non possono attendere passaggi e tempi lunghi della giustizia italiana. Spesso le segnalazioni di abusi e maltrattamenti che arrivano alle procure si risolvono solo con gli interventi dei servizi sociali, senza il ricorso al tribunale. E con l’arrivo dei tanti minori stranieri non accompagnati, gli uffici dei luoghi di approdo sono carichi di lavoro.
Chi si pone dall’altra parte della barricata, contrario alla soppressione non vuole solo che si mantenga lo stato attuale delle cose, ma chiede in tempi celeri una riforma del sistema, stabilendo procedure univoche, che ad oggi non esistono e maggiore informatizzazione. Ad oggi, manca una banca dati dei minori che vivono lontani dalla famiglia e dei bambini adottabili. La proposta che viene avanzata è quella di creare un unico tribunale rivolto alle famiglie, che accorpi tutte le competenze. Bisognerebbe tralasciare la logica dell’efficienza economica e ragionare in termini di efficacia e questa riforma ha proprio il segno dell’inefficacia.

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La madonna dei paganesi. Riti, leggende, odori e sapori di una Vergine venerata da tanti

Tra i fiori di pesco, il sole tiepido dei primi giorni di primavera, nella città di Pagani (Salerno) spira il vento della tradizione, che sa di festa e di popolarità. Processioni, canti, balli e gastronomia, si sposano in un perfetto connubio che in un rito ormai consolidato ma mai noioso, si vive nell’ottava di Pasqua nella cittadina dell’agro nocerino sarnese, celebrando e vivendo un vero e proprio rito collettivo, che si tramanda di generazione in generazione, con semplicità e convivialità, lasciando di anno in anno nel solco della fede senza fiato i tanti fedeli: la festa della Madonna del Carmelo, detta delle Galline.
Un vero racconto di fede quello che di anno in anno la cittadina che vanta il santo patrono Sant’Alfonso racconta ai tanti fedeli e non solo che accorrono per assistere ad una festa che mescola sacro e profano. Un racconto che sa di storia quanto di devozione. Leggenda narra che durante la domenica in Albis del XIV secolo, alcune galline, razzolando, portarono alla luce l’effige della Vergine del Carmine, dipinta su una tavola di legno. L’immagine è stata conservata nel tempo nel piccolo oratorio dell’Annunziatella. Tra i vicoli di Pagani che sanno di storia e di tempo, si incontrano narratori che raccontano come intorno al 1609 quell’immagine abbia compiuto ben otto miracoli, tra cui quello tanto chiacchierato di uno storpio, che sognando la Madonna, avrebbe poi camminato. Eventi che spinsero l’allora vescovo della città, Monsignor Lunadoro, a costruire una nuova chiesa per la Madonna delle Galline ed i suoi devoti. Un legame storico e ben stretto quello tra i paganesi e la “sua” Madonna: per tre giorni, dal venerdì (quest’anno dal 21 aprile), quando si aprono al culto le porte del Santuario a lei intitolato, fino alla domenica sera, quando la Vergine, dopo una lunga giornata di processione fa ritorno in chiesa, la città si immerge nelle antiche tradizioni dettate dal folklore: preghiere, toselli, tammurriate, danze e buon cibo.

Il venerdì dopo Pasqua i paganesi sono in strada, raccolti davanti al grosso portone di legno, i pugni bussano, invocano l’ingresso.

Poi l’entrata. La Vergine si presenta bella, col suo mantello ricamato, ornata di colombe. I tammorrari ed i fedeli si affidano a lei con le loro preghiere. Canti e balli sono l’altra faccia della fede, un altro modo per dimostrazione la propria vocazione e venerazione alla Madonna, un rituale di canti e balli che si ripete all’unisono fino a notte fonda. Al risveglio, il sabato mattina, è un brusio di pulcini e profumi, nell’aria si sente il tipico odore dei carciofi, mentre gli uomini si dedicano ai toselli, tipici altarini allestiti nei cortili storici o per strada, in cui si espone la tradizione di un tempo: vecchie massaie, altarini di preghiere, prodotti tipici della tradizione paganese. Ma il vero rito collettivo, quello che abbraccia da sempre sacro e profano, mettendo d’accordo fedeli e scettici, è quello della domenica in albis, quando le donne tra il profumo di incenso, preparano il tipico ragù che si mischierà poi ai tagliolini, ancora stesi per l’ultima asciugatura, immancabili in un dì di festa così importante, dove il paganese alla sua tavola ha sempre un ospite, riscoprendo il piacere della convivialità e dell’ospitalità, proprio come avveniva un tempo, per condividere insieme un altro anno di festa con pietanze semplici ma frutto della terra e della fatica dell’uomo. Per tutto il giorno tra le vie della città, le stradine, gli storici cortili, è tutto un passeggio che richiama al tipico struscio pasquale. E’ il giorno dei paganesi, quello atteso e desiderato per un anno intero. “A’ maronna iesce è nnove e s’arritira a calata e l’ora”: così una delle massime paganesi, scandisce uno dei momenti

più suggestivi. Infatti, la Madonna esce dalla sua casa al mattino presto e si incammina per le vie della città: dal cuore storico fino alla periferia. Ad accompagnarla una folta folla di fedeli e colombi, volatili, col pavone accovacciato alla base, fermandosi per ricevere doni e intenzioni di preghiere, tra fedeli che si accodano e tanti altri che dai balconi mostrano lenzuola e coperte più belle, lanciando al passaggio della Vergine sul suo capo petali di rose. Poi la storica tappa: al rione “palazzine”, dove la Madonna si sofferma e viene accolta da fuochi pirotecnici. Mentre, molti si spostano e si ritrovano nel cuore pulsante del ritmo musicale: la villa comunale, dove devoti e cultori si lasciano andare al ritmo di tammorre e di nacchere, accompagnati dai balli caratteristici, che richiamano all’antico rito del corteggiamento, storie popolari che si intrecciano a vino e pelli di tammorre che vibrano in una catarsi sacra e pagana.

La festa continua anche al calar della sera, mentre, la Vergine si appresta all’ultimo atto del suo viaggio, l’antica tappa in Piazza Sant’Alfonso, dove la tradizione vuole che il padre redentorista consegni una coppia di galline, ripetendo così il gesto compiuto secoli fa dal patrono della città, devoto della Madonna. La Vergine, riconoscente, ricambia il dono con due colombe. Le nacchere e le tammorre suonano ancora, si sentono nell’aria della città ancora in festa, una lunga notte di festa, che si conclude all’alba del lunedì, quando i tammorrari depongono gli strumenti ai piedi della statua della Madonna, invocando la sua grazia e la sua protezione. Calando così un velo sui festeggiamenti, con la speranza di un altro anno di protezione dalla “Madonna dei pagani”.

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Addio al genitore collocatario nell’affido condiviso, parola del Tribunale di Salerno

img_0217Affido condiviso ma senza genitore collocatario prevalente, parola del Tribunale di Salerno, che mette mano alla risoluzione delle controversie sui figli al momento della separazione, applicando, dopo Brindisi, le nuove linee guida in nome della bigenitorialità. In pratica, salvo situazioni particolari, come impegni lavorativi o allattamento, scompare la collazione prevalente, utile per stabilità logistica, optando per la continuità e stabilità degli affetti coinvolgendo entrambi i genitori nella quotidianità dei figli attraverso l’assegnazione ad entrambi dei compiti di cura comprensivi anche della parte economica. Quindi mantenimento diretto per i capitoli di spesa e assegno solo in via subordinata, con funzione perequativa. Non una fiscale pariteticità di tempi, ma pari opportunità per i figli di rapportarsi con ciascun genitore per ogni loro esigenza. Genitori che saranno in una posizione di pari dignità e pari responsabilità, presenti nella vita dei figli intercambiabilmente, in una sorta di equilibrio dinamico. I compiti di cura scattano per entrambi genitori, in modo che possano entrambi partecipare alla vita quotidiana dei figli. Quanto alla casa, se i tempi sono equivalenti si decide secondo la legge ordinaria e se non lo sono, si guarda prima alla soluzione più idonea per i figli e poi avviene l’assegnazione. Una vera inversione di marcia rispetto alle prassi prevalenti. Eppure si è trattato solo di applicare una legge esistente, perché l’affido condiviso è legge applicata solo nel nome ma ignorata nella sostanza, tanto che in Senato dallo scorso febbraio è ripresa la discussione sulla riscrittura delle norme sull’affido condiviso per applicare pienamente il diritto dei figli minori a ricevere pariteticamente cura, educazione e istruzione da entrambi i genitori. Ma oggi arrivano nuove linee guida che da Brindisi sono approdate a Salerno, il primo Tribunale che ha seguito le tracce del foro pugliese, anche perché il capoluogo campano è stato in passato culla dell’affidamento condiviso. Così il tribunale di Salerno ha voluto aprire un nuovo corso applicativo della legge 54/2006 sull’affido condiviso dei figli separati, sancendo un maggior coinvolgimento del padre, il genitore oggi tipicamente non collocatario, ad aspetti della vita quotidiana, ciò significa per le madri la possibilità di godere di pari opportunità anche nel mondo del lavoro e nella propria vita privata. Ma d’altra parte significherà per i figli non veder sbiadire la figura di uno dei genitori per effetto di una separazione che coinvolge solo il ruolo di coppia e non quello di genitori. Nelle nuove linee guida non dimenticano la mediazione familiare, la cui pratica viene ricordata e raccomandata. Dopo 11 lunghi anni, viene applicata la legge dello Stato, un atto dovuto. Una vera rivoluzione. L’auspicio è che l’esempio sia un effetto domino per altri tribunali italiani e soprattutto questo primo passo sia uno scossone per il Parlamento affinché si senta sollecitato a provvedere senza indugio. Le linee guida hanno in allegato anche un modulo di istruzioni d’uso redatto in collaborazione con l’associazione “crescere insieme”, che nasce secondo il prof Marino Maglietta, presidente nazionale dell’associazione, con lo scopo di condividere il testo con altri fori, ma soprattutto adottandole su base nazionale la riforma della legge 54 del 2006, tanto chiacchierata, non potrebbe più essere rimandata secondo il professore e il Ministero della Giustizia si sentirebbe obbligato a tenerne conto e a darne diffusione.

Sembra proprio che però un primo passo sia stato compiuto affinché venga pienamente applicato il diritto alla bigenitorialità, ci arriverà anche lo Stato italiano?

(Articolo pubblicato su ildenaro.it)

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Estetica oncologica: un nuovo modo di affrontare il cancro

17799377_1852211925033975_8249244302505497766_nDalla corsia al salone di bellezza, dai cubicoli alla poltrona estetica, dai pareri dei medici a quello di una consulente d’immagine della squadra del make up artist Diego Dalla Palma. La speranza trionfa nei sorrisi delle pazienti di Pagani, che giovedì pomeriggio si sono incontrate nei locali dell’oratorio della chiesa San Sisto di Barbazzano, che ha accolto l’iniziativa “laboratorio di bellezza per le pazienti oncologiche”, organizzato dall’associazione di volontariato “Insieme per rinascere”. Per un giorno, l’oratorio della parrocchia si è trasformato in un beauty saloon, tra creme, ombretti colorati e ritocchi di make up. La bellezza va celebrata, anche e soprattutto quando è martoriata e mutilata dalla malattia, sepolta sotto una parrucca, asportata insieme ad un seno, nascosta da una cicatrice. Il cancro è una cicatrice nell’anima. Ruba la salute, ma anche troppo spesso la dignità, la fiducia in se stessi, la percezione di sé nel mondo. Queste donne, malgrado tutto continuano ad essere madri, mogli e figlie. Riescono a collocare nell’agenda della vita l’appuntamento per la chemioterapia fra la scuola dei figli e le incombenze domestiche. Sono donne coraggiose e bellissime. Ed ecco che arriva l’estetica oncologica, un nuovo modo di affrontare il cancro. Molte le donne che ieri a Pagani si sono avvicinate alla bellezza e all’estetica, sposando l’idea che è possibile mantenere inalterata la propria immagine nonostante la malattia, anche perché aiuta a stare meglio. Un effetto benefico. Sapere che oggi accanto alle terapie oncologiche esiste la possibilità di pensare alla propria bellezza nonostante il tumore, può cambiare molto la percezione di se stesse come malate di cancro, e quindi la propria qualità di vita che si ripercuote sull’andamento della malattia.

983990_1852212171700617_1956924640713132625_nCosì giovedì nelle stanze dell’oratorio della parrocchia paganese le donne hanno potuto strappare segreti e consigli dalla make up artist, che ha insegnato loro come truccarsi per nascondere pallore ed eruzione cutanei, quali colori usare, quali trattamenti estetici fare per stare meglio con se stesse e nel proprio corpo che dolorosamente muta. Un’iniziativa quasi unica nel suo genere, che nella città di Sant’Alfonso presto si ripeterà, ma laboratori estetici per pazienti oncologiche sono ancora pochi in Italia, si può contare solo Casoria, che per un giorno ha trasformato la sala della chemioterapia in un centro estetico ed il reparto di oncologia di Sesto San Giovanni nel milanese. Troppo poco ancora, perché quando si partecipa ad un laboratorio di bellezza oncologica, si comprende come l’estetica oncologica non è solo una parentesi di leggerezza, durante la quale le donne non pensano alla malattia e non si sentono malate, ma è una iniezione di fiducia, uno strumento di supporto psicologico che le aiuta a ritrovare forza e a sentirsi bene con loro stesse.

 

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Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messSchiaffi, insulti, in alcuni casi anche minacce di morte. Il tutto spesso ripreso in un video di umiliazione inflitte ad un proprio compagno, che poi viene postato sui social network. Si chiama bullismo, si legge violenza ai danni dei più deboli. Si abbassa lo sguardo, ci si sente sotto attacco. La voce, se ce la fa a uscire, è un pigolio. E’ questa la vittima perfetta del bullo. Ragazzi ma anche ragazze, perché il bullismo è traversale, anzi, quello femminile è più subdolo; di solito sono vittime di un gruppo, perché il rapporto tra vessato e vessatori è sempre impari. La postura della vittima testimonia l’angoscia terribile. Sono accartocciati, hanno ormai imparato ad accettare in silenzio le critiche più feroci, perché di solito sono persone molto ben educate, alle quali dare una brutta risposta sembra maleducato. Non è raro che i bullizzati sono figli unici: non hanno mai vissuto l’esperienza della lite tra fratelli, arrivano impreparati all’attacco. Diventano “freezing” dall’inglese, ovvero, congelamento, l’essere incapaci di dire o fare qualsiasi cosa a propria difesa. La scuola, a cui si delega la soluzione del problema del bullismo, a volta non dà la risposta giusta. Il famoso cancello delle medie o del liceo diventa quasi terra di nessuno, dove non esistono più responsabilità precise. I ragazzi si chiudono così in casa, la soluzione dei genitori è quella di cambiare istituto, ma è una decisione che contiene in sé il seme del fallimento ed il fenomeno resta taciuto, impunito e dilagante. Basti pensare che, secondo gli ultimi dati Istat diffusi a dicembre scorso e riferiti al 2014, un adolescente italiano su due è stato vittima di bullismo. Dai dati emerge che poco più del 50% degli 11-17enni ha subito qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento da parte di altri ragazzi o ragazze nei 12 mesi precedenti. Il 19,8% è vittima assidua di una delle “tipiche” azioni di bullismo, cioè le subisce più volte al mese. Per il 9,1% gli atti di prepotenza si ripetono con cadenza settimanale. Tra i ragazzi utilizzatori di cellulare e/o internet, il 5,9% denuncia di avere subito ripetutamente azioni vessatorie tramite sms, e-mail, chat o sui social network. Le prepotenze più comuni, secondo i dati Istat, consistono in offese con brutti soprannomi, parolacce o insulti, derisione per l’aspetto fisico e/o il modo di parlare, diffamazione aggressioni con spintoni, botte, calci e pugni (3,8%). Stando ai dati Istat per alcuni di loro difendersi dai bulli chiede aiuto ai genitori, segue poi la richiesta agli insegnanti.

La Psicologia: Aggressivi ed arroganti nei confronti dei loro coetanei più deboli, anche per colpa dei genitori che li difendono ad oltranza e spesso in maniera irragionevole. I genitori perdono il controllo dei propri figli: manca la comunicazione, il dialogo. I ragazzi di oggi postano tutto, usano la rete per aggredire. Sono meno educati di una volta, i loro genitori sono protettivi e permissivi che rasenta il lassismo. Tendono a scusare tutto, mentre, i ragazzi hanno bisogno di essere guidati. Il bullismo è una nuova forma di aggressività, una vera e propria emergenza che avviene sotto gli occhi degli adulti che non vigilano. E’ un tema di cui se ne parla ancora poco, alimentato però dai social ai danni dei soggetti più fragili. Il problema è che manca un ruolo fermo del contesto, sia esso scolastico o familiare, che spesso non si rende conto dei segnali di fragilità che la vittima lancia. È l’adulto che non vigila più. Mentre, paradossalmente, si creano situazioni di iper-protezione, per cui di fronte a una sgridata di un insegnante i genitori si ribellano. Poi però i ragazzi vengono lasciati da soli a interagire con televisione e soprattutto computer.

Perché l’assistente sociale dovrebbe occuparsi di bullismo? Alla domanda si può solo rispondere che il ruolo dei servizi sociali dovrebbe essere concepito nella logica preventiva e non dell’emergenza. La presenza dell’assistente sociale, all’interno degli sportelli d’ascolto istituiti nelle scuole, rappresenta una risorsa ai fini preventivi. L’assistente sociale venendo a conoscenza di certe situazioni, presenti nell’ambito familiare, del bambino o dell’adolescente che si rivolge allo sportello, può intervenire attraverso strumenti propri del suo bagaglio professionale, ed indirizzare il ragazzo o la famiglia, verso adeguati servizi specialistici. Importante è il ruolo dell’assistente sociale nel programmare servizi a sostegno della famiglia, ovvero, favorendo politiche a sostegno della famiglia. Affinché si possa investire adeguatamente, nel lungo termine, nella prevenzione di forme di devianza minorile, occorre puntare ad una politica, che miri al rafforzamento delle competenze genitoriali, tesa al superamento dell’istituzionalizzazione del minore, nei casi in cui la famiglia non risulti adeguata allo svolgimento del suo compito.

Cosa potrebbe fare l’opinione pubblica?  Se invece di definirlo bullismo, che purtroppo assume il sinonimo ancora di “ragazzata” giustificandolo: “succedeva anche ai miei tempi di tornare a casa con un occhio nero” commenta qualche genitore, un atto compiuto con leggerezza, iniziassimo a definirlo reato? Forse le famiglie, i complici, la scuola, la società, i Tribunali, inizierebbero a reagire seriamente a questa serie di violenze impunite. Senza indulgenza di età o di circostanze. Non è bullismo. E’ un reato. Aguzzini, violenti, carnefici. Ragazzi da recuperare e non da proteggere.

(Articolo pubblicato su “il denaro.it”)

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Bambini reclusi. L’infanzia tra le mura di un penitenziario

Nascere e crescere chiusi dietro le sbarre: sono i figli neonati delle detenute nei carceri femminili italiani, a cui la legge permette di vivere coi propri figli all’interno della struttura fino al compimento dei tre anni. Non è un modo di dire, poiché il giorno stesso del compleanno il bambino viene prelevato dalla struttura dove vive con la madre e affidato ad altre cure, nella migliore delle ipotesi alla famiglia d’origine. Una vita, quella dei piccoli, modulata sulle dinamiche della detenzione adulta, con le stesse sbarre, gli stessi colori, i pochi spazi e il problema del superaffollamento. In Italia sono circa 100 bambini in queste condizioni. In alcuni casi sono ospitati in nido colorati, ma non tutte le strutture femminili riescono a garantire questi spazi. E così capita che un bambino debba crescere dietro le sbarre, scontando una pena che non ha commesso, a volte anche da solo, senza altri bambini. A questi piccoli si aggiungono quelli che ogni giorno entrano in carcere per far vita al genitore detenuto: 100 mila ogni anno in Italia, sottoposti a perquisizione prima di entrare, proprio come gli adulti, e spesso sono costretti a incontrare il genitore in spazi grigi, chiusi. Tutto previsto dall’ordinamento penitenziario del 1975, mentre una legge che dispone diversamente esiste, ed è la legge 62 dell’aprile 2011 che introduce due alternative alla detenzione per questi bambini. La prima di queste opzioni sono gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri con prole fino a tre/sei anni) che sebbene siano carceri, a livello edilizio sono comunque più simili a una casa normale, anche se la donna vive la propria quotidianità da detenuta. La seconda alternativa al carcere vero e proprio sarebbero invece le famose case famiglia protette, che dovrebbero essere destinate a donne che non hanno la possibilità di ripristinare la normale convivenza con il figlio per mancanza di un domicilio. Il condizionale è d’obbligo, dal momento che a oggi di Icam ce ne sono solo due in tutta la penisola e di case famiglia protette nemmeno l’ombra. Eppure la legge del 2011 urla con le sue misure alternative che i bambini in carcere non devono starci. Chi nasce e cresce in detenzione soffre di gravi deprivazioni sensoriali. La vita di un minore in carcere è uno schiaffo ai suoi diritti, il mondo è visto dalle sbarre di un penitenziario tra urla, sofferenze, storie di vita non facili, colori spenti, giochi monotoni e in luoghi chiusi, angusti, a volte in stanze piccole, per motivi di spazi, mentre fuori c’è il sole, la vita, i parchi giochi e poco più oltre il mare. Il carcere non è il luogo dove poter essere madri, non è possibile gestire i propri figli, crescerli secondo criterio. I tempi, i modi, le compatibilità sono decisi altrove. E anche le esperienze significative, l’esplorazione del mondo, avvengono con altri. Come i volontari che operano in molti penitenziari, che nel fine settimana portano fuori dalle mura i piccoli, che aspettano con gioia queste giornate. Ma arrivano poi le angosce, la paura di non tornare più dalla mamma o quella di non uscire più. Le madri sbagliano ma i bambini ne pagano le conseguenze in ambienti inidonei all’infanzia e alla possibilità di essere madri. La legge c’è ed è quella del 2011 che pensa a luoghi senza sbarre, armi o divise. Possibili soluzioni che ad oggi sono ancora utopia in un paese che non guarda ai diritti dei più piccoli, negandogli un’infanzia serena, spensierata, ma fatta di celle, di ambienti piccoli, di spazi verdi inesistenti, con un impatto psicologico non indifferente: a questi bambini vengono negati gli affetti, l’amore dei familiari, la possibilità di socializzazione, ma ancora la possibilità di conoscere il mondo, la curiosità e la scoperta tipici dei primi anni di vita. La vita tra le sbarre per un bambino si traduce anche difficoltà di linguaggio, a volte imparano parole, gesti, atteggiamenti da adulti. Possono riscontrare difficoltà di inserimento in classi di bambini, possono essere iperattivi, sviluppare aggressività. Inoltre, l’istituto di pena spesso è l’elemento ostacolativo tra il bambino ed il genitore. L’istituto di pena non è il luogo adatto per un incontro, spesso sono gli assistenti sociali o anche il giudice a non concedere l’autorizzazione per un loro incontro, quando viene concesso, i bambini subiscono l’impatto con la realtà e vengono trattati dagli agenti come adulti, ritrovandosi nelle grandi stanze del parlatorio ad incontrare i loro genitori, senza privacy, senza possibilità di gioco.
Bambini a cui lo Stato deve garantire un’infanzia oltre le sbarre.

Pubblicato su “il denaro.it” 

Sì all’adozione a coppia gay, il Tribunale di Firenze applica in pieno la 184/83

IMG_0217Sentenza storica per l’Italia: il Tribunale per i minorenni di Firenze ha accolto la richiesta di una coppia gay, riconoscendoli pienamente genitori adottivi. La coppia di due uomini italiani, ma residente nel Regno Unito, ha ottenuto dall’Italia, grazie al tribunale del capoluogo toscano, il riconoscimento all’adozione di due fratellini. Una sentenza storica per il nostro paese. Fino ad oggi in Italia era possibile solo ottenere, in seguito ad un iter giudiziario, solo l’adozione del figlio del partener (la cosiddetta stepchild adoption). A sostenere la battaglia di questi due papà fiorentini è stata Rete Lenford, l’avvocatura per i diritti Lgbt. La coppia si era rivolta proprio all’associazione per ottenere in Italia la trascrizione dei provvedimenti emessi dall’autorità straniera a cui consegue per i figli il riconoscimento della cittadinanza italiana e del medesimo status e diritti così come riconosciuti nel Regno Unito. Il tribunale toscano, con un’articolata motivazione, ha accolto integralmente le richieste avanzate dal legale della coppia, compiendo una completa disamina della disciplina del riconoscimento in Italia dei provvedimenti stranieri che riguardano i minorenni e riconoscendo l’inquadramento della fattispecie avanzata dall’art. 36 comma 4 della legge 184/83 che disciplina in Italia le procedure di affidamento e di adozione di un minore. “Il riconoscimento di tale sentenza (ndr quella pronunciata dalla Corte inglese) è assolutamente aderente all’interesse dei minori che vivono in una famiglia stabile”- è quanto si legge nel decreto. E poi continua: “Si tratta di una vera e propria famiglia, di un rapporto di filiazione in piena regola e come tale va pienamente tutelato e del resto la nuova formulazione dell’ articolo 74 cc sulla parentela, dopo aver nella prima parte specificato che la parentela è vincolo tra le persone che provengono da uno stesso stipite, aggiunge, ‘sia nel caso che la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso il figlio è adottivo”. Una sentenza  che rispetta i canoni segnati dalla 184/83, la disposizione normativa prevede che l’adozione pronunciata dalla competente autorità di un paese straniero ad istanza di cittadini italiani che dimostrino di avere soggiornato continuativamente nello stesso e di avervi avuto la residenza da almeno due anni, viene riconosciuta ad ogni effetto in Italia purché “conforme ai principi della convezione” (convenzione dell’aja 29 maggio 1993). Un’ipotesi che prende le distanze dalla normativa che disciplina l’adozione internazionale da parte di coppie italiane. Il tribunale ha proceduto alla verifica della conformità alla convenzione dell’Aja della sentenza britannica con la quale era stata disposta l’adozione di due fratellini, chiarendo che la convenzione non pone limiti allo status dei genitori adottivi, ma richiede unicamente la verifica che i futuri genitori adottivi siano qualificati e idonei all’adozione, esame che nel caso di specie è stato puntualmente effettuato dalle autorità inglesi, riservando l’eventuale rifiuto all’ipotesi che il riconoscimento sia manifestamente contrario all’ordine pubblico. La sentenza però porta ad esaminare un altro parametro importante rappresentato dall’ “interesse superiore del minore”, il tribunale fiorentino chiarisce che deve essere salvaguardato il diritto dei minori a conservare lo status di figlio, riconosciutogli da un atto validamente formato in un altro paese dell’unione europea (preceduto da una lunga, complessa e approfondita procedura di verifica), e che il mancato riconoscimento in Italia del rapporto di filiazione esistente nel regno unito, determinerebbe una “incertezza giuridica” che influirebbe negativamente sulla definizione dell’identità personale dei minori. Peraltro, aggiungono i giudici, la sussistenza dei requisiti ex art. 36 Comma 4, esclude una valutazione discrezionale da parte dell’autorità giudiziaria italiana. Non di meno si sottolinea come dalla documentazione prodotta sia emerso che “si tratta di una vera e propria famiglia e di un rapporto di filiazione in pena regola che come tale va pienamente tutelato”. Una tappa storica per il riconoscimento dei diritti della famiglie arcobaleno: la transnazionalità di queste famiglie è un ruolo fondamentale, la giurisprudenza ha chiarito che l’ordine pubblico internazionale non pone alcun ostacolo al riconoscimento della continuità dei rapporti che si costituiscono all’estero, per realizzare pienamente quello che l’interesse dei minori, rimarcato dalla stessa 184/83 e caro ad ogni esperto che entra in contatto con i bambini. La sentenza fa emergere però l’inammissibile situazione di disuguaglianza in cui versano tutte quelle famiglie che non possono aggrapparsi alla transnazionalità, alle quali il legislatore nega qualsiasi forma di riconoscimento e tutela. Sarà un primo passo verso una maggiore apertura e cambiamento?

Pubblicato su “il denaro.it”

 

 

 

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