Tre milioni e centomila, le persone con disabilità in Italia, questi i dati dell’Istat, che descrivono nel dettaglio la popolazione di persone con disabilità che vive nel paese. Le politiche sulla disabilità non devono puntare solo sull’assistenza, importante, ma il sostegno e l’intervento per garantire ai disabili le opportunità e la personale realizzazione è vitale, non soltanto per loro. A pochi giorni dalla giornata nazionale che celebra nel nostro paese il lavoro, non si può non guardare al tasso di occupazione delle persone con disabilità ancora più basso nel nostro paese della media europea. L’inclusione lavorativa è uno dei temi fondamentali delle persone con disabilità, ancora troppo spesso escluse o in attesa da anni di un’occasione lavorativa. Un’opportunità a cui avrebbero diritto per legge. Lavoro che non è solo reddito ma anche dignità ed il sentirsi parte attiva di una comunità, confrontandosi con la società. Avere un’occupazione per una persona con disabilità significa aiutare la propria autonomia, con una visione di vita indipendente. La situazione occupazionale dei disabili in Italia però è maglia nera: su cento persone di 15-64 anni che, presentano limitazioni delle funzioni motorie e/o sensoriali essenziali nella vita quotidiana o con disturbi intellettivi o del comportamento, abili comunque al lavoro, solo il 35.8 sono occupati. I dati estratti dall’Agenzia nazionale disabilità e lavoro (Andel), riportano che il tasso medio Ue di occupazione delle persone disabili invece è superiore al 50%, quasi venti punti in più. In Italia ci sono all’incirca un milione di persone disabili disoccupate o in cerca di un primo impiego, e la pandemia non ha aiutato di certo, dilatando ancora di più i tempi. Le più svantaggiate, le donne, rispetto agli uomini; se si osserva l’area geografica, il divario è ancora più grande: la Lombardia da sola occupa tante persone con disabilità quanto l’intera area del Sud. Infine, se si guarda al livello di invalidità, la maggior parte di coloro che sono riusciti a trovare un impiego presenta livelli ridotti di invalidità. L’esempio che viene riportato da Andel, è quello di una giovane donna del Sud con invalidità elevata che con scarse speranze tende ad iscriversi alle liste della legge 68/99, le cosiddette categorie protette. Il collocamento mirato nato proprio dalla legge 68/99 dimostra come non funziona, tanto che nelle scorse settimane, sono stati approvati e apportati modifiche. Ad oggi, ci sono persone che a distanza di dieci anni non sono state ancora contattate per un’offerta di lavoro. Secondo la normativa, in primo luogo, verrà fatta una valutazione della capacità lavorativa della persona disabile, partendo dai suoi punti di forza e non soffermandosi soltanto sulle limitazioni. Poi, verrà redatto un profilo di occupabilità dove saranno precisati i titoli di studio, le capacità lavorative, il tipo di patologia. Una volta raccolte tutte le informazioni è prevista la creazione di una banca dati nell’ufficio di collocamento che i datori di lavoro potranno consultare in modo da proporre alle persone il lavoro più adatto e per il quale si è più portati. Inoltre, se la propria patologia non consente di recarsi sul luogo di lavoro, è obbligatorio garantire il lavoro a distanza. In sostanza, si prevede di fare dei piani di lavoro più personalizzati e ciò dovrebbe favorire l’inclusione nell’ambito lavorativo. Previste, inoltre, sanzioni per le aziende che non assumono lavoratori disabili. Per le persone con disabilità il lavoro è ancora più centrale perché permette di vivere la società e le relazioni. Il passo per la correzione e la sensibilizzazione è stato compiuto con i correttivi alla 68/99, ma bisogna ora metterle in pratica, altrimenti il rischio è di un sistema poco funzionante e poco utile, che continua a lasciare a casa chi ha delle limitazioni ma capacità e competenze. La strada però è ancora lunga, se la legge c’è ed i correttivi anche, è importante sviluppare una cultura più corretta sulle persone disabili che non devono essere viste come un soprammobile ma lavoratori come tutti gli altri. Ricordiamoci, che includere significa che la persona disabile abbia le stesse opportunità degli altri, in qualsiasi ambito. E speriamo che questo nobile passo, non resti incompiuto.
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)



Aziende e pubbliche amministrazioni per limitare il diffondersi dell’epidemia hanno dovuto fare di necessità virtù al tempo del lockdown, adottando lo smart working: lavoro da remoto, dimostrando che si può lavorare da casa. Così in molti dipendenti dalle zone rosse, epicentro dell’epidemia, sino al Sud Italia e passando per il centro del bel paese, sono finiti in smart working pur tra mille iniziali difficoltà. Ammettiamolo, molti di noi, con l’inizio della pandemia, non pensavano che sarebbero riusciti a lavorare bene – o quasi- anche da casa. Uffici con flussi di lavoro, rapporti umani e ravvicinati, programmazioni, riunioni, sembrava tutto lontano e impossibile da riadattare all’era digitale. Eppure ce l’abbiamo fatta. Con tempo, pazienza, spirito di adattamento e con un approccio meno diffidente verso i contenuti digitali. Così abbiamo iniziato a sperimentare nuove idee: riunioni in conference telefoniche o in modalità videochiamata, linee telefoniche dedicate all’utenza, progetti che iniziavano a prendere anima e corpo ma questa volta sotto la spinta digitale. Comprendendo che alla base di tutto ci fosse l’innovazione, quale chiave su cui ruoteranno anche i cambiamenti futuri. Innovazione che ha trasformato il lavoro. La giornata di ognuno di noi, prima scandita secondo precise abitudini, ora si interseca con le esigenze di vita: a casa bisogna lavorare e occuparsi del menage familiare. L’innovazione digitale ci consente di restare connessi e di gestire il tempo in base alle necessità che anch’esse sono cambiate, ribaltando il tradizionale paradigma della rivoluzione industriale: il lavoratore era pagato per le ore che metteva a disposizione, ora si è pagati per obiettivo. Certo, lo smart working può essere diverso per settori lavorativi e non può essere applicato a molte professioni, in alcuni casi bisogna alternarlo al lavoro in presenza o comunque rimodulare gli obiettivi, insomma, una sfida continua che si trasforma in opportunità futura.