Subdolo o palese, l’odio viaggia in via etere. Odio virtuale che trasforma il mondo di internet in far web. Frasi velate, scritte chiare e offensive, battutine, attacchi diretti e pubblici, le bacheche di molti social network e stories degli utenti del web sono popolati di frasi d’odio virtuale a danno dell’altro che sia un collega, un amico, un perfetto sconosciuto o un personaggio dello spettacolo, poco importa, l’importante è riversare il proprio odio pubblicamente, talvolta per una manciata di like e di commenti di incoraggiamento. Li chiamano “haters” dall’inglese, coloro che praticano in rete l’odio. Sono molto di moda. Ovviamente, gli haters sono a loro volta oggetto di odio, virato in ironia ribattezzandoli “leoni da tastiera”. Una violenza evidente soprattutto sui social: secondo rivelazioni Swg, odio e falsità fanno parte del nuovo modo di comunicare per l’80% degli intervistati, dato in crescita rispetto al passato. Il 63% ritiene che i giovani si abitueranno a usare toni offensivi e solo il 22% pensa che le giovani generazioni riusciranno a scegliere uno stile più corretto. Gay, migranti ed ebrei, sono le categorie più colpite dal linguaggio violento. La crescente ignoranza e il crescente individualismo sono le principali cause dell’odio e della violenza in rete, ma anche il cattivo esempio dei politici incita molti utenti del web. L’aggressività verbale si riversa di riflesso anche nelle aziende, nei luoghi di lavoro, dove il linguaggio irrispettoso è cresciuto del 26%. Antipatie e pregiudizi si riversano in rete, è fenomeno comune quello di avere una qualche antipatia verso un collega e di riversarla in post pubblici o in chat comuni, con l’unico obiettivo di attaccare l’altro, di sminuirlo, di offenderlo, il tutto pubblicamente, perché gli altri leggano, ferendo ed offendendo l’altro ancor di più. Non tutti hanno la corazza e la scorza dura per farsi scivolare tutto di dosso, molti ne restano feriti nell’orgoglio e nell’animo, minando ancor di più il loro essere e le loro fragilità, sentendosi inadatti, inadeguati, fuori luogo, lasciandosi sopraffare dal giudizio altrui. In bilico l’autostima, quasi affossandola. Haters incattiviti col mondo e col genere umano, talvolta persone che si nascondono sotto false identità, o persone che pur usando la loro identità si sentono “forti”, lo schermo rende tutti distanti. Sono persone convinte che, trovandosi dall’altra parte di un pc, possono esprimere tutto ciò che passa per la loro mente, senza alcun filtro e alcuna educazione. Senza ragionare o tener conto delle conseguenze che le loro parole possono avere sugli altri. Persone rabbiose e frustrate, che riversano il tutto sul web. Purtroppo ne rimane vittima chi non ha le armi per difendersi. Armi dell’amor proprio e della sicurezza di ciò che si è, tale da non permettere a nessuno di intaccare. Questo soprattutto se è continuo un attacco denigratorio. Quando si rimane vittima dei leoni da tastiera si possono avere conseguenze più o meno importanti che vanno dal turbamento a forme di depressione grave, in alcuni casi limite persino al suicidio. Gli hater in realtà sono persone vili, che non hanno il coraggio di prendersi la responsabilità di ciò che affermano, persone che si sentono forti solo perché hanno una tastiera e uno schermo, forse nella realtà non sarebbero capaci di un discorso e di un confronto umano. Ma pur essendo coraggiosi perché distanti hanno il potere di ferire le loro vittime. Dal punto di vista giuridico si stanno compiendo passi per punire queste persone e far emergere il fenomeno dell’odio in rete, fin troppo sommerso. Ma rimane la ferita dolorosa che lasciano alle loro vittime. Più che mai in questi mesi di pandemia abbiamo imparato quanto la Rete ed i social possano tenerci compagnia e siano un modo per sentirsi con gli altri, proprio per questo va curato e gli va dato il giusto valore. La Rete fa la differenza quando porta con sé umanità che sa andare oltre lo schermo. Nel frattempo vi lascio qualche consiglio per proteggersi dagli haters:
-Non rispondere agli haters: l’istinto umano è quello di rispondere, specie se si è continuamente attaccati. Non lo fate. Chi vi insulta non aspetta altro, per continuare a riversare il suo odio e per avere le sue ragioni. Ignorate.
-Nascondete i loro commenti: la vostra bacheca o una foto è piena di commenti spiacevoli o insulti? Nascondeteli. Il profilo è vostro ed avete tutta la libertà di ignorare, nascondere, limitare il profilo o i post. Se ci riprova, bloccatelo.
-Segnalate: qualora la situazione è altamente offensiva o ritenete opportuno ci si può rivolgere alla polizia postale per bloccare i contenuti.
Tra le altre cose che si possono fare, si può evitare di condividere o apporre like ai post offensivi: prendere le distanze è importante, altrimenti siamo complici dell’hater. Se l’hater è un vostro amico o conoscente, provate a parlargli e a sensibilizzarlo. Segnalate le pagine offensive anche se non vi riguardano direttamente. Se siete vittime delle offese e dell’odio che minano il vostro essere rivolgetevi ad uno psicologo, vi aiuterà a ritrovare la vostra perduta autostima a danno del frustrato hater.
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

Ci ha divisi per anni, per poi riunirci. Elogio ad internet ai tempi del coronavirus. Ci voleva una pandemia per farci riscoprire l’entusiasmo verso la rete e la società connessa. Sembra proprio che sia tornata alla ribalta la rivoluzione buona delle “three double w” . Negli ultimi anni non sono mancate le ragioni per criticare gli effetti collaterali della rete sulla nostra società. Dipendenza smoderata da smartphone e social network, violazione della privacy, manipolazione dell’opinione pubblica, molestie e quant’altro ne ha prodotte negli anni la rete, finendo per dare per scontato gli aspetti positivi, almeno fino agli inizi del nuovo anno, quando è giunto il coronavirus ad insegnarci che esiste un altro lato di internet. Niente cinema, aperitivi, week end fuori porta. Niente vita sociale. Il covid19 ci ha imposto di ritornare a vivere pienamente la nostra casa, ritrovando molto tempo libero, riscoprendo anche l’enorme ruolo che gioca la rete nelle nostre vite. Riscoprendo quanto possa giovare alla nostra coesione e farci sentire più vicini pur trovandoci a causa di questa pandemia l’uno distanti dall’altro. La rivoluzione digitale è approdata nel lavoro, assistendo a quello che è stato definito “il più grande esperimento di smart working” di tutti i tempi. C’è anche un altro aspetto da considerare, se possibile ancor più sorprendente: raduni digitale con gli amici su Skype. Nella città della moda e dell’economia, Milano, hanno dato vita da un “apericall” o “aperiskype”. Insomma si esce con gli amici ma su Skype. Niente di diverso da una normale conference call, questa volta però è tra amici per tenersi compagnia. Ai tempi del coronavirus, la rete ci fa sperimentare anche una “bulimia culturale” . Senza internet, una situazione di questo tipo ci avrebbe dato come alternative i libri, la televisione e la radio. Situazioni che non garantiscono molta evasione, specie la tv, dove il ricorso è allo zapping televisivo per trovare qualcosa che faccia evadere. Ma c’è internet che ci consente di viaggiare e visitare virtualmente dei musei, ma anche di poter apprezzare ed approfittare di lodevoli iniziative di condivisioni gratuita messe in campo da diverse case editrici. Ma si può anche approfittare di concerti online trasmessi in diretta social da molti artisti, dj set, sino a condividere playlist su Spotify.
Uno aveva agito in preda ad una “tempesta emotiva”, l’altro perché lei lo aveva “illuso”. Sentenze che pongono al centro il comportamento della vittima ed i sentimenti – sentenza dei “risentimenti” di un uomo che colpisce a morte la propria compagna di vita- pare proprio che abbia un peso nelle aule di tribunale. Una relazione altalenante e burrascosa o un’infanzia anaffettiva possono costituire attenuanti e alleggerire la condanna per un reato tanto agghiacciate e che non può trovare scusanti. Per entrambi gli autori di femminicidi, le pene per aver ucciso le moglie e le compagne hanno avuto una forte riduzione: da 30 a 16 anni di reclusione. Immediata l’indignazione. In un caso, il 57 enne emiliano, aveva confessato di aver strangolato a mani nude la compagna perché non accettava l’idea che lo lasciasse. Condannato a trent’anni in primo grado, la Corte d’Appello di Bologna ha dimezzato la pena a sedici anni, richiamando la perizia secondo cui l’uomo era in preda a una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”, testimoniata dal tentativo di suicidio. Dieci giorno dopo la sentenza emiliana, la stessa pena viene inflitta al 52 enne ecuadoriano che nell’aprile del 2018 a Genova uccise accoltellando la moglie dopo aver scoperto che lei non aveva lasciato l’amante, come invece gli aveva promesso. Nel suo caso il rito abbreviato gli ha concesso una condanna a sedici anni. Il giudice nella sentenza ha scritto che l’uomo era stato mosso da un “misto di rabbia e disperazione, profonda delusione e risentimento” e avrebbe agito – sempre stando a quanto scrive il giudice – “sotto una spinta di uno stato d’animo intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile”. Le sentenze vanno rispettate, ma anche le vittime e le famiglie che restano a piangere dovrebbero esserlo: considerare ogni caso singolarmente e concedere riti speciali sono quando ritenuto opportuno potrebbe essere un primo passo. Quando i giudici scrivano che lo stato d’animo dell’ecuadoriano “non è umanamente del tutto comprensibile” sembra proprio che affermino che è umanamente comprensibile, lasciando trasparire tra le righe una sentenza di condanna all’atteggiamento fedifrago e contraddittorio della moglie. Lei gli ha solo promesso qualcosa che non ha mantenuto: fedeltà continua. Non è la prima e non sarà l’ultima donna a tradire il proprio compagno di vita, bisogna solo capire se questo debba essere considerato come un’aggravante o un’attenuante, quando dall’infedeltà si passa all’omicidio. Ma non sarà il primo né l’ultimo uomo al mondo ad aver avuto un’infanzia infelice e ad essere preda a “soverchiante tempesta emotiva e passionale” come nel caso del 57 enne emiliano. Nei cosiddetti delitti passionali e in tutti i femminicidi compiuti da uomini che non accettano di essere lasciati, ci sarà una componente emotiva. Una donna che decide di lavorare, una ragazza che decide di lasciare il proprio fidanzato, ogni donna che sceglierà provocherà una reazione emotiva, che non possono in alcun modo diventare attenuanti, non solo in fase processuale, ma ancor di più nella nostra cultura. La percezione che nasce da queste sentenze è che ci sia un ritorno al “delitto d’onore” che in passato era previsto nei casi di omicidio commesso da un uomo o da una donna nei confronti di un parente per “difendere l’onore suo e della sua famiglia” in caso di tradimento. Le analogie con il caso di Genova riguardano il legame di parentela tra omicida e vittima, e il più mite trattamento sanzionatorio, che nel caso del delitto d’onore prevedeva fino a un massimo di sette anni di carcere. Rievocarlo è suggestivo, ma le similitudini si possono constatare. Intanto, ci si chiede a che punto sia l’iter di approvazione del “codice rosa” che prevede una corsia preferenziale per le donne che denunciano abusi e violenze. Il testo sarebbe “un punto di svolta importante” –ha affermato il titolare della giustizia Alfonso Bonafede. Nel presente però queste sentenze hanno un forte impatto sull’opinione pubblica e stiamo correndo un duplice rischio: che la pena risenta della sensibilità dei giudici e che qualcuno inizi o ricominci a considerare il comportamento di una donna come la causa di una reazione violenta, di un atteggiamento prevaricatore, di un omicidio. E questo non possiamo permetterlo. Un paese democratico, un paese che tutela i diritti, che tutela le donne, che scende in piazza tra scarpe rosse e fiaccolate, non può permetterlo.