Il claim risuona forte e spregiante: “via da qui, ci deprezzate le case”. I residenti di case di pregio della Roma Nord hanno manifestato tutto il loro dissenso per una casa rifugio per donne umiliate e vittime di soprusi della violenza maschile, che dovrebbe sorgere vicino alle loro case. Stando a quanto riporta nel suo virgolettato “Repubblica”, i residenti hanno affermato “noi in quel palazzo non le vogliamo: ci deprezzano il valore del bene, non sia mai che un giorno i nostri figli dovessero trovarsi in classe con i bambini di quelle donne, ci sono pure molti studi di professionisti in zona, ne risentirebbero anche loro”. Nulla è ancora deciso. Ma il putiferio è scaturito durante un sopralluogo della presidente di “Telefono Rosa” in uno degli immobili messo a bando dal comune di Roma per scopi sociali. E non è la prima volta. Un episodio analogo solo pochi giorni fa ai Parioli – zona di Roma- in una casa rifugio aperta in un appartamento-bene confiscato alle mafie. Episodi non isolati, già durante il lockdown un servizio del tg1 accendeva i riflettori sui condomini che rifiutavano le case rifugio per donne vittime di violenza. Storie di ingiustizia sociale che aggiunge violenza alla violenza, quella fisica e psicologica subita da donne e bambini tra le mura domestiche ora sotto protezione, si somma quella morale, donne disprezzate e umiliate da alcuni residenti che non le vogliono nel loro condominio. Fatti che offendono le donne a cui non viene riconosciuto il sopruso e la sofferenza, mortificandole ancora una volta senza ritegno e rispetto, ma si insulta anche il duro lavoro degli operatori e delle associazioni che con molta fatica ed energia lavorano ogni giorno per tutelare donne e bambini vittime di violenza, cercando di garantire loro un’alternativa alla loro difficile e segnata vita. La violenza sulle donne e di riflesso quella che subiscono i minori perché ne assistono o subiscono in prima persona, in Italia i numeri sono spaventosi, a questi si aggiungono le donne del femminicidio. Il lockdown poi ha acuito molte forme di violenza domestica. Sono molte le donne che denunciano e lì dove non è possibile trovare una rete familiare dedita all’accoglienza per lei e per i suoi figli si attiva dopo la denuncia per maltrattamenti familiari il ricovero in case-rifugio, luoghi dediti all’accoglienza e che garantiscono un tetto ed una quotidianità alle vittime e ai loro bambini, un ricovero che può durare anche dei mesi; basato su un progetto che individua assistenza legale, psicologica e anche un percorso di reinserimento sociale. Secondo il dato raccolto da ActionAid il numero di donne che decidono di denunciare una violenza è in costante crescita. Un atto di coraggio, per decenni impensabile per tantissime donne, che probabilmente meriterebbero più rispetto e considerazione. Negatogli dall’uomo che avrebbe dovuto amarle, rispettarle e proteggerle, ma negatogli anche dalla società civile, che da sempre si è detta dalla parte delle donne, che si è detta società civile e sociale, ma che mostra tutt’altro che civiltà. Sembra un passo retrogrado. Queste donne per una parte di questi condomini sembra siano un ingombro, un disagio per chi non è disposto all’accoglienza, un comprensorio dedito al benestare che sbarra la porta alle donne che si vedono il rifiuto ad essere accolte in una nuova casa e in una nuova dimensione di vita. E’ una questione culturale e ancor di più di mentalità: queste donne per loro non fanno parte del loro mondo. Ma è un dispiacere enorme sentire alle soglie del 2021 queste offese in una società che si è detta aperta, in cui l’integrazione sembrava realtà. Ma troppi dubbi e troppe ingiustizie regnano per chi dalla vita ne ha subite già molte. Sono donne e bambini- spesso neonati o piccoli di pochi anni, che colpa ne hanno? Quale potrà esse il suo futuro? Nessuna colpa, se non quella dell’ignoranza e di una società che di civile e altruistico non ha dimostrato ancora nulla.
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)


In camera tutto il giorno. Il mondo è confinato in una socialità virtuale e senza alcun legame col mondo esterno. Prigionieri di se stessi. Iperconnessi ed in perenne solitudine. Una gioventù limitata nel tempo e nello spazio, una stop forzato alla crescita. Giovani che si ritirano dal mondo, si chiamano “hikikomori”. Erano 100 mila in Italia prima del lockdown ma i numeri sono aumentati con la pandemia. Reclusi in casa, in particolare in camera, spesso per paura del mondo esterno. Per loro la notte è sinonimo di sicurezza, al mattino, invece, cresce l’ansia. Il pc ed i social sono il loro mondo. Per loro le relazioni umane si azzerano, quasi inesistenti, nella maggior parte dei casi molti di questi ragazzi non ha mai avuto una relazione affettiva. Qualcuno li definisce inetti e pigri, ma sono figli della generazione hikikomori, parola giapponese che significa strare in disparte, ritirarsi. In Giappone, il fenomeno ha avuto inizio negli anni Ottanta, dove si stima siano un milione gli autoreclusi. Covano dentro di loro dolore e vergogna nel mostrarsi al mondo esterno. La vergogna, sembra essere proprio l’elemento fondamentale, secondo lo psicoterapeuta Piotti, tra i primi in Italia ad occuparsi di ritiro sociale. La società è ormai diventata spietata con e tra gli adolescenti, nulla perdona: dal brufolo alla gaffe fatta in classe. Una società dove la bellezza è centrale e lo sguardo dell’altro è il giudice più temuto. E se ti senti inadatto e brutto, l’unica soluzione è optare per il virtuale e restare chiuso nel posto in cui più ti senti al sicuro. Internet li protegge e allo stesso tempo imprigiona. Una sindrome sociale che nell’ 80% dei casi colpisce i maschi ma il numero delle ragazze è in continuo aumento. Secondo dei dati, giunti dal Giappone, colpisce soprattutto i primogeniti ed i figli unici. Solitamente si tratta di intelligenze sopra la media, carriere scolastiche brillanti interrotte e mai riprese. Molti provengono da famiglie acculturate ed istruite. In alcuni casi i genitori sono reduci da separazioni ed uno dei due è assente nella vita del minore. Gli anni di chiusura solitamente oscillano tra i tre ed i dieci anni, ma possono anche andare oltre. Alla base di questa scelta solitamente c’è delusione, un caso di bullismo, o anche un’offesa che ha ferito. Il corpo si nasconde, quasi si annulla, il sesso non interessa. Molti hikikomori si professano asessuali. Il primo campanello d’allarme per i genitori è l’abbandono della scuola. L’anno critico solitamente arriva in seconda o terza media, oppure poco dopo l’inizio del primo anno delle superiori. Da un’indagine dell’Associazione Hikikomori Italia, unico punto di riferimento nel nostro paese per le famiglie, con molti gruppi di auto mutuo aiuto, il fenomeno è più presente al Nord, mentre il Lazio è la regione che registra più casi. . E la quarantena dovuta alla pandemia non ha fatto altro che acuire il fenomeno, infatti, in molti hanno trasformato l’isolamento forzato in casa in un isolamento volontario. Senza scuola, senza hobby e con una routine ormai consolidata, il rischio ora è quello di non aver voglia di tornare fuori. La risposta è forse in una ribellione solitaria al mondo fatto di apparenze, di conflitti e di competitività che abbiamo lasciato loro in eredità, dove la fuga dal mondo per un mondo celato sembra in loro l’unica via d’uscita.
Nei giorni che hanno segnato il mondo e le vite, così sospesi in un flusso digitale quasi ininterrotto, in cui abbiamo cercato di mantenere un equilibrio tra il bisogno di comprendere ed il seguire il naturale corso degli eventi, cercando di sottrarci al marasma di informazioni, analisi e dati statistici. Un mondo però andava avanti con operai, cassieri, impiegati, sanitari e operatori sociali che continuavano a lavorare instancabilmente consapevoli di essere il motore pulsante di un Paese che andava avanti e che avrebbe dovuto ripartire e ricominciare nel post covid. Il sociale è uno dei settori che in questo surreale ed improvviso periodo non si è mai fermato, anzi, è stato uno dei tasselli fondamentali del puzzle di vita dell’emergenza epidemiologica. Il lockdown ha acuito molti bisogni, accentuato la forbice di disparità sociale, aumentato la povertà in ogni sua forma: da quella economica a quella educativa, la violenza domestica e familiare è aumentata, e molti assistenti sociali e psicologi si sono ritrovati in piena emergenza. L’emergenza nell’emergenza. In questo periodo le comunità per minori, le comunità psichiatriche, i servizi per i disabili, l’educativa di strada, l’assistenza ai senza fissa dimora, le residenze per anziani hanno continuato ad operare a pieno regime, mentre i servizi di assistenza domiciliare hanno riconvertito la loro funzione in un senso maggiormente assistenziale come pure per l’assistenza scolastica. Gli operatori ed i professionisti del sociale non si sono tirati indietro anche perché nascono nel motto del “fare con quello che c’è”. La volontà, quella non è mai mancata, non si sono mai tirati indietro, lavorando anche in un momento alquanto difficile: perché le paure sono di tutti. Uomini e donne, professionisti del sociale e del mondo sanitario che in questa emergenza sanitaria e sociale hanno mostrato umanità e competenza, senso del dovere e abnegazione, eppure per molto tempo hanno incarnato nell’immaginario comune e politico l’ultimo baluardo e martire del defunto welfare italiano. Eppure se non ci fosse stato il cuore delle comunità educative, delle case famiglia, delle residenze per anziani, questi ospiti che fine avrebbero fatto? L’hastag #iorestoacasa valeva anche per loro. Ma c’era chi un a casa non ce l’aveva e chi, pur avendola, non viveva con la propria famiglia: i bambini, i ragazzi, gli anziani che vivono in comunità ospitanti. Le comunità sono un servizio residenziale e non può sospendere le sue attività, non può allontanare nessuno per “sicurezza” perché proprio per la loro “sicurezza e protezione” sono stati accolti, allontanati da famiglie maltrattanti e abusanti, o per gli adulti da contesti di abbandono e solitudine.